Restituire l’anima

di Monica Lazzaretto

«Ti riconoscerò sul binario della stazione e ti chiamerò per nome» questo il titolo scelto per la 35a festa di Macondo che quest’anno avrà luogo a Marghera (Venezia) il 18 maggio prossimo, ospiti della comunità parrocchiale della SS. Risurrezione.
Macondo continua questa avventura di essere itinerante tra le comunità, associazioni, paesi che esprimono interesse a co-costruire la festa insieme. Incontrare nuovi gruppi, discutere, condividere possibili temi, orientarsi sui relatori, definire l’organizzazione della festa è sicuramente arricchente, un’occasione per Macondo di aprirsi, conoscere nuove persone, trovare nuove contaminazioni, entrare nei quartieri, nella vita di una comunità: un modo concreto per uscire dalla propria zona di confort, dalla propria autoreferenzialità e vivere le fatiche e le opportunità che questo giocare fuori casa può riservare. Dopo due anni che la festa è stata ospitata dagli amici della parrocchia di Olmi di San Biagio di Callata, quest’anno, su proposta di alcuni soci di Macondo, migreremo nella provincia di Venezia.

Il tema del riconoscimento

Il tema che si vuole approfondire quest’anno è quello del riconoscimento, un contenuto urgente che chiede di essere ricompreso e declinato nella sua complessità: tra necessità, priorità e opportunità. In questi tempi difficili, è fondamentale individuare occasioni per un nuovo ri-conoscimento della realtà, dell’altro/a e dei suoi diritti, ma anche il riconoscimento della Terra e delle sue creature, riconoscimento, infine, dei popoli e della loro identità, della necessità della pace come valore fondamentale per la sopravvivenza di ognuno. Per approfondire questi temi abbiamo invitato relatori molto interessanti e stimolanti, capaci di sintonizzarsi con lo stile di Macondo.
Riconoscere non è un automatismo, non è scontato, immediato o evidente. Si impara a riconoscere attraverso esercizio di progressiva consapevolezza, confronto e riflessione condivisi. La nostra natura umana spesso si trova a oscillare tra tensioni opposte: da un lato spinte che tendono all’autoconservazione, all’autoaffermazione di sé, che se però prendono il sopravvento e diventano dilaganti possono degenerare in volontà di dominio, controllo, sopraffazione e possesso, innescando conflittualità poco generative ed evolutive.
Dall’altro sperimentiamo spesso, per fortuna, che da soli non possiamo farcela, che non ci bastiamo, che l’autoreferenzialità non aiuta la crescita, la ingessa, che l’autoconservazione è legittima ma, se esasperata, non è generativa, è sterile, non lascia eredi, che pensare di “sapere già” ci toglie occasioni importanti per la scoperta di sé, dell’altro e del mondo. Succede soprattutto quando la vita, nei suoi molteplici accadimenti, ci fa sperimentare la nostra finitezza, l’imperfezione e la vulnerabilità del nostro essere, delle sue emozioni, pensieri, progetti, della sua tenuta sul mondo. Sperimentare una natura fragile può spingerci a chiuderci e irrigidirci o a tentare di condividere la fatica, a cercare un “altro” che sappia accogliere la nostra finitezza. Scopriamo che il primo bisogno che davvero abbiamo è quello di ri-conoscimento: incontrare qualcuno che ci guardi e che ci riconosca, che ci chiami per nome e dentro a quella relazione sentire di esistere, di essere nella mente e nel cuore di qualcuno, come da piccoli ci specchiavamo nel volto della madre.
La consapevolezza della precarietà della natura umana può essere una leva che ci spinge a una relazione consapevole, inclusiva, prima apertura all’altro, al riconoscimento implicito che dell’altro abbiamo bisogno, che può essere un conforto alla propria vulnerabilità, sostegno al proprio sentimento di sé.

L’altro è lo straniero, l’emarginato

Diventa però interessante cominciare a guardare a quale “altro” mi rivolgo, a quale “altro” dò il permesso di avvicinarsi, di ascoltarmi, di stabilire con me una relazione. Spesso è un “altro” molto simile a me, e quando la distanza e la diversità non sono significative il rischio è che le persone che mi circondano, che vivono con me, bene o male condividano le mie idee, le mie posizioni, tra me e loro non ci sia grande differenza, non ci sia vero respiro. In questo caso il pericolo è che non ci sia tanto il desiderio dell’altro quanto il desiderio di sé stessi, di sentirsi confermati per quello che si è, circondati da simili.
L’altro cui mi rivolgo difficilmente è lo straniero, il lontano, lo sconosciuto, l’emarginato, certo a lui non chiederò accoglienza, non chiederò riconoscimento, non è un mio pari.
E qui sta la provocazione del titolo della festa: Ti riconoscerò sul binario della stazione e ti chiamerò per nome; se tra i binari di una qualsiasi stazione, luogo senza identità e di nessuno, saprò io per primo riconoscere l’umanità sofferente dell’altro che è anche la mia, il suo bisogno di essere riconosciuto, che è il mio, di essere accolto che è sempre anche mio, se avrò un moto di consapevolezza e compassione vedendolo e lo chiamerò per nome, ritroverò il mio tesoro e lui forse mi salverà: mi restituirà la mia anima che potrei aver persa, o almeno assopita, mi restituirà il mio sentire profondo, la mia commozione e il dolore che ci appartiene, come il nostro comune destino. Lo troverò in un binario morto, senza volto e senza nome, venuto anche per me, per prendersi cura della mia vita, per restituirmi la mia più profonda umanità, quella che questo mondo seducente, manipolativo, ha insudiciato, ha costretto a patteggiare con una vita a volte dis-umana, forse sui binari della stazione uno straniero, non uno come me, molto diverso da me, mi darà l’occasione per fermarmi, sentirmi e sentire; forse, da qualche parte qualcuno è venuto per me, per restituirmi quell’umanità che è il vero tesoro della vita.

monica lazzaretto

Monica Lazzaretto

Presidente di Macondo, vive a Tramonte (Pd), lavora a Mira (Ve)
come responsabile del centro studi della Cooperativa Olivotti scs.