I confini dell’anima
Sotto il cielo di Salamanca
Esiste, per ognuno di noi, un “luogo dell’anima”. Uno o più di uno. Un posto, un angolo di mondo o della memoria, dove torniamo puntualmente, dove è necessario tornare: pena l’offuscarsi della nostra anima, la perdita del nostro io più profondo. Ci sono ancora milioni di posti meravigliosi da scoprire, luoghi dove andare per la prima volta, ma mi sono accorto che tornare è più importante che andare.
Tutte le volte che in auto da Ferrara scendo verso sud, mi fermo a Monterchi (Arezzo), un piccolo borgo vicino a Sansepolcro, dove c’è un affresco di modeste dimensioni, la “Madonna del parto” di Piero della Francesca. È un’opera straordinaria, emozionante; ma perché tornare a Monterchi per la dodicesima volta invece di visitare un nuovo capolavoro di cui è zeppa la Toscana e tutta l’Italia? Non so rispondere che in un modo: perché il ritornare in un luogo amato significa anche ritornare a me stesso.
Quest’estate ho fatto un lungo giro in Spagna e Portogallo con un’amica, che per fortuna guida molto meglio di me. Naturalmente ho visto posti meravigliosi. Ma già nell’ora della partenza e lungo tutti quei 6.000 chilometri, mentre scoprivo luoghi mai visti, continuavo a pensare al “Cielo di Salamanca”. Era lì che dopo quasi quarant’anni volevo tornare.
Sono entrato, pochi turisti attorno, e sopra di me la piccola volta mi aspettava: le stelle, le costellazioni, le figure dello zodiaco, un profumo di pace. In un attimo, il cielo medievale di Salamanca era sopra di me, ma quel cielo non mi aveva ma abbandonato, mi aveva accompagnato come un amico fedele dentro ogni passo della mia vita.
Come salvarsi dalle petizioni
Ho fatto i conti: ogni settimana alla redazione di Periscopio e a me personalmente (per e-mail o per chat) arrivano una dozzina di petizioni e appelli. Con il solito invito: «È importante, puoi firmare anche tu?». «Aiutaci ad arrivare a 100 firme, a 1.000 firme, a 3.000 firme…». Poi change.org, la piattaforma più popolare (e di cui comincio a diffidare) mi chiede di contribuire con un soldino alla campagna.
Nell’eclissi della politica – la politica esiste ancora solo per i professionisti della politica, non per il popolo che ha smesso di ascoltare, e di votare – firmare una petizione (o ancor meglio, promuoverla) sembra essere un succedaneo a ogni impegno politico e sociale.
Ecco: mettiamo una firma e ci sentiamo un po’ meglio, abbiamo fatto la nostra parte. La petizione, la firma online, sembra diventata la forma più diffusa e praticata di partecipazione: un grande fiume che si perde in mille inutili rivoli. Sarebbe questa la nuova forma di democrazia che ci aspetta? Non voglio passare per complottista, ma si potrebbe pensare a una regia occulta, a una fabbrica delle petizioni per servire al volgo un nuovo oppio. E tenerlo lontano dalla stanza dei bottoni.
Le petizioni che arrivano sono di tutti i tipi e per tutti i gusti.
Tutte propongono una piccola o grande causa, quasi sempre una causa giusta. «Ma io sono solo io e loro sono tutti» (Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo), l’unico modo per salvarmi è il rifiuto. Nove volte su dieci: niente firma, e niente obolo. Capita però quella iniziativa, quella proposta, quella petizione che va assolutamente sostenuta.
Se verrà la pace
Questa ad esempio. Una lettera/appello che contiene una proposta molto ambiziosa. Ecco il titolo: Proclamare uno sciopero dei produttori e dei consumatori contro la guerra (vi invito a cercare la petizione su Google, vale la vostra firma).
Scrive il folto gruppo dei promotori: «In una Nazione fondata sul ripudio costituzionale della guerra chi invoca e lavora per la Pace viene attaccato, espulso dal sistema, messo all’indice. Papa Francesco all’Arena di Pace ha detto che per risolvere i conflitti armati, lui ha fiducia soprattutto nei popoli. Forse è per questo che anche sua Santità viene messo a tacere e non viene preso in considerazione».
Ormai – uso le parole di Francesco – siamo già dentro una «guerra mondiale a pezzi».
E visto che la politica (in Italia e altrove, la destra ma anche la sinistra) non mette al centro della sua azione la pace, la trattativa, il disarmo, la fine della strage degli innocenti; visto che le voci (comprese quella di papa Francesco e delle Nazioni Unite) che chiedono “pace subito” rimangono inascoltate o vengono addirittura irrise; visto che continuano a prevalere gli interessi geopolitici e i grandi affari dei produttori e mercanti d’armi; visto che l’Europa e l’America si riempiono la bocca di pace ma continuano a foraggiare le guerre; allora – dice la lettera/appello – è inutile farsi illusioni, non ci si può aspettare più nulla dalla politica, occorre partire dall’altro capo del filo, dal basso invece che dall’alto. Da qui la proposta di uno sciopero generale per la pace. Uno sciopero dei lavoratori e dei consumatori.
L’idea è talmente rivoluzionaria che sembra fuori dalla realtà, ma ha il pregio di parlare chiaro. La pace verrà solo grazie a una mobilitazione dei popoli («Sono solo i popoli che fanno le rivoluzioni» – ripeteva Giuseppe Stoppigliafumo di quei 360 gradi non c’è nessun arrosto. Parole vuote: quasi cinquant’anni fa Rino Gaetano ne faceva un dettagliato elenco.
A scuola, sugli angoli ci siamo spaccati la testa: angolo retto (il più famoso), angolo acuto, angolo ottuso, angolo piatto, e in fondo (serviva a poco ma bisognava impararlo) c’era l’angolo giro, pari a 360 gradi. Tra me e la trigonometria non c’era nessuna empatia, ma avevo capito come funzionava l’angolo giro: se sei seduto sul divano e stai guardando la finestra di fronte a te, puoi fare un viaggio, un giro lunghissimo di 360 gradi. Alla fine del viaggio ti ritrovi al punto di partenza, seduto sullo stesso divano a guardare la stessa finestra: parti da A (un qualsiasi punto dello spazio) e raggiungi A (il medesimo punto dello spazio).
I 360 gradi funzionano così: non si arriva da nessuna parte, si gira solo in tondo. Lo sanno tutti. Qualcuno lo dica anche a Giorgia.
Francesco Monini direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio, vive e lavora a Ferrara.), un’iniziativa che dovrà coinvolgere sindacati, associazioni, collettivi, gruppi spontanei, gli uomini e le donne di buona volontà.
È vero sembra una follia, fantapolitica, un sogno, ma forse questa volta bisogna crederci. Altrimenti la guerra continuerà all’infinito.
Difendere i confini
La procura di Palermo ha chiesto sei anni di carcere per Salvini nel processo Open Arms. L’accusa all’ex ministro dell’Interno è di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per aver impedito alla nave dell’Ong spagnola di attraccare a Lampedusa nel 2019.
Matteo Salvini si difende così: «Rischio il carcere perché la sinistra ha deciso che difendere i confini italiani è un reato».
Tutto il centrodestra, Giorgia Meloni in testa, si è schierato con il perseguitato Salvini. Nell’occhio del ciclone (non è la prima volta) c’è la magistratura, zeppa di giudici comunisti e complici della sinistra. Sullo sfondo il governo lavora per la separazione delle carriere, per depotenziare e condizionare la libertà e l’autonomia del potere giudiziario e subordinarlo al potere esecutivo.
Il processo a Salvini si farà. La speranza è che giudici vengano lasciati liberi di applicare le leggi italiane. Perché in ballo ci sono le leggi italiane, non i confini, come vorrebbero le dichiarazioni (comiche se non fossero preoccupanti) dell’ex ministro dell’Interno.
C’è stato un tempo, più di un secolo fa, in cui i confini italiani erano minacciati. E ci fu chi, a costo della vita, difese i confini italiani.
Durante la Grande Guerra gli alpini furono chiamati per la prima volta a difendere i confini italiani. Per quattro lunghi anni combatterono in un ambiente ostile, a volte solamente per conquistare pochi metri di roccia o per tenere, a costo di migliaia di morti, piccole posizioni fra monti e ghiacciai. Grazie a quelle dure prove, però, e nonostante l’inefficienza degli alti comandi, gli alpini italiani riuscirono a dimostrare il loro valore, la loro tenacia, il loro sacrificio. Furono, infatti, le Penne Nere a ottenere i decisivi sfondamenti sul Monte Grappa, sul Monte Adamello e sul Monte Tonale. Fu la Prima Guerra Mondiale a creare la leggenda di queste truppe scelte, isolate ma imbattibili. Quelli difesi dalle Penne Nere erano confini, chiamiamoli pure “sacri confini”, quelli di Salvini assolutamente no. Perché a Lampedusa non avevamo davanti nessun esercito nemico, ma 193 persone salvate dal naufragio.
A 360 gradi
Non è vero che io abbia il dente avvelenato con Giorgia Meloni.
Oppure sì, ma Giorgia mi spiace più o meno come gli ultimi 12 presidenti del Consiglio. Giorgia Meloni detta Giorgia, la donna più citata e più sfottuta dai social, è una politica di lungo corso, una che “ci sa fare” e piena di qualità: un’innata predisposizione al comando, la risposta prontissima, una parlantina planetaria e chilometrica. In più, quella tipica faccia di bronzo che distingue il politico di razza da un semplice apprendista.
Ma c’è una cosa che non sopporto in Giorgia, la sua passione (ossessione) per i 360 gradi. Giorgia non riesce a farne a meno, i 360 gradi sono diventati il suo mantra. Un intercalare che vorrebbe convincere o almeno riempire qualche buco, ma che produce l’effetto contrario: il vuoto, la nebbia, il nulla.
… ci stiamo lavorando a 360 gradi
… abbiamo bisogno di risposte a 360 gradi
… un modello di collaborazione a 360 gradi
… sostegno all’Ucraina a 360 gradi
… sarà una battaglia a 360 gradi …dobbiamo tornare a produrre energia a 360 gradi
… affrontare i problemi a 360 gradi
… eccetera eccetera eccetera
Naturalmente i 360 gradi non sono appannaggio esclusivo della Meloni. Piacciono moltissimo a Salvini, ma anche a Conte, a Serracchiani e a tanti altri. Si usano in politica ma anche nel commercio, al dettaglio o all’ingrosso: «Una polizza che ti copre a 360 gradi». Vorrebbero rappresentare la totalità e la completezza, il successo assicurato, ma chi ascolta capisce benissimo che dietro il fumo di quei 360 gradi non c’è nessun arrosto. Parole vuote: quasi cinquant’anni fa Rino Gaetano ne faceva un dettagliato elenco.
A scuola, sugli angoli ci siamo spaccati la testa: angolo retto (il più famoso), angolo acuto, angolo ottuso, angolo piatto, e in fondo (serviva a poco ma bisognava impararlo) c’era l’angolo giro, pari a 360 gradi. Tra me e la trigonometria non c’era nessuna empatia, ma avevo capito come funzionava l’angolo giro: se sei seduto sul divano e stai guardando la finestra di fronte a te, puoi fare un viaggio, un giro lunghissimo di 360 gradi. Alla fine del viaggio ti ritrovi al punto di partenza, seduto sullo stesso divano a guardare la stessa finestra: parti da A (un qualsiasi punto dello spazio) e raggiungi A (il medesimo punto dello spazio).
I 360 gradi funzionano così: non si arriva da nessuna parte, si gira solo in tondo. Lo sanno tutti. Qualcuno lo dica anche a Giorgia.
Francesco Monini
Direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio, vive e lavora a Ferrara.