La leggerezza dell’imperfezione
Da buon figlio di contadini, sono entrato nella scuola elementare parlando solo il dialetto veneto.
È stato un ingresso difficile, tanto che la maestra disse alla mia mamma: «Mi dispiace signora, suo figlio è disabile». Dopo alcuni anni, alla fine della terza media, pensavo di voler disegnare e costruire case, volevo fare l’architetto e mi sono iscritto al liceo scientifico. Al liceo sono stato bocciato in prima. Alla fine, sono uscito con l’idea di fare lo psicologo. Empatia per le mie e altrui difficoltà, senso di giustizia, voglia improvvisa di essere d’aiuto agli altri? Sicuramente ho trovato attorno a me persone che mi hanno dato libertà di scelta e trasmesso fiducia.
Forse per questa mia vicissitudine non riesco a pensare l’essere umano come una macchina perfetta, preferisco pensarlo come un insieme evoluto di capacità e disabilità, di sfumature, contraddizioni, imperfezioni. Pensare alla normalità come assenza di difetto è delirantenQual è il nostro ideale di perfezione? Non lo so, ma sicuramente nel nostro paese conviene, oltre che essere classicamente belli, essere bianchi, del Nord Italia, essere maschi, giovani, sposati, eterosessuali, in forma e fecondi. Se hai difetto di qualcuna di queste caratteristiche cominciano i guai. Cerchiamo la perfezione, eppure l’essere umano è così imperfetto da non riuscire, alcune volte, a guardarsi.
Ci sono delle qualità, delle emozioni, dei pensieri che ci creano problemi, che non abbiamo ancora riconosciuto, che ci fanno star male e dai quali ci difendiamo, a volte fino a non vederli: la prepotenza, l’aggressività, il desiderio sessuale. Il nostro cervello, allora, qualche volta, mette in atto un meccanismo di difesa che si chiama “proiezione”.
In alcune occasioni della nostra vita noi siamo dei proiettori di immagini, gli altri sono schermi, le nostre “parti” sono così difficili da sopportare che non possiamo far altro che proiettarle e vederle sugli altri: l’odio, l’attrazione sessuale che non ci possiamo permettere diventano degli altri.
La proiezione è un meccanismo diffuso anche nelle rigide separazioni che fanno le nazioni, le religioni, le sette: i buoni, i civili, l’ordine da una parte, i cattivi, selvaggi, il caos dall’altra. Le distinzioni in questo caso tra perfetto e imperfetto, tra puro e impuro, diventano motrici di violenza: gli altri diventano inferiori e per questo possono essere soggiogati, dominati, repressi.
Vivere in pace con l’altro ha una premessa ed è quella di vivere in pace con sé stessi. Se non mi accetto rischio di appiccicare i miei difetti agli altri.
Il processo di maturità consiste nel promuovere il miglioramento di sé, ma anche nel lasciar esistere le imperfezioni, gli errori. Quando le imperfezioni entrano a far parte di noi, diamo loro appartenenza, dignità, ci permettiamo di essere e di viverci per quello che siamo… E quelle che dovevano essere zavorre diventano fonte di energia, benzina motivazionale: ciò che ci fa camminare nella vita sono le nostre bellezze, le nostre capacità, ma soprattutto ciò che ci manca.
Possiamo usare la metafora della finestra aperta per guardare le nostre qualità, belle o brutte che siano, accoglierle, guardare fuori e permettere agli altri di guardare dentro? Meccanismo umano collegato alla proiezione è la paura per ciò che non conosciamo. Il non conosciuto ci provoca, fa paura e quindi dobbiamo inserirlo in categorie che già conosciamo: selvaggio, matto, straniero, figlio del peccato… che poi diventano insieme le qualità che neghiamo in noi e concentriamo negli altri.
Ha scritto Thuram nel libro “Le mie stelle nere”: «Io sono diventato nero a nove anni, quando sono arrivato in Francia e ho incontrato i bianchi. Si diventa neri con gli sguardi degli altri».
Sarebbe molto bello diventare più leggeri con noi stessi e avvicinarsi, di conseguenza, senza paura agli altri. Ci sono due movimenti in questo: il primo il volersi bene, farsi le carezze, metaforiche o reali che siano. Ognuno ha bisogno di stimolazioni, il neonato, l’adolescente, l’adulto, l’anziano, le carezze sono vitali, senza stimolazioni psicologicamente ci si ammala, si muore.
Il secondo movimento è verso l’altro, l’avvicinamento, la carezza, l’abbraccio. L’altro, come noi, ha fame di carezze, noi, come l’altro, abbiamo bisogno di annusare, toccare, essere toccati, vedere, baciare, assaggiare, sentire, immaginare, sognare. Cosa stiamo aspettando? Il percorso fatto è un po’ strano: siamo partiti dalle nostre lacune, dai vuoti, da mancanze, difetti, imperfezioni, forse stiamo cominciando faticosamente a pensare che potrebbero essere proprio questi elementi la motivazione del nostro vivere, la spinta a cercare l’altro e ad abbracciarlo.
Natalino Filippin
psicologo, vive a Bassano del Grappa (Vi), anima un gruppo giovani di Macondo.