Una terapia per il nostro multiforme mal-essere?
Qual è la malattia da curare?
Ricardo Peter ne era convinto, a tal punto che questo filosofo nicaraguense, vissuto a Roma come ambasciatore presso la Santa Sede dal 1979 al 1990, ha scritto pochi preziosissimi libri soltanto su questo tema. Ma se l’imperfezione è terapia, qual è la malattia da curare? Più o meno siamo partiti da qui col nostro gruppo di teenagers al 2° MacondoCamp di gennaio 2024. Mito della perfezione, tendenza costante al raggiungimento di un ideale perfetto (di corpo, di genitore, di figlio/a…) e a vivere senza sbagli, limiti, incertezze: tutto ciò è malattia, una nevrosi secondo Peter, che ci porta a un profondo mal-essere con noi stessi/e, con gli altri e col nostro pianeta.
La cultura in cui viviamo ci propone la perfezione come valore supremo e obiettivo fondamentale a cui tendere: dobbiamo riuscire in tutto, possedere sempre di più, avere un fisico da copertina, realizzare il massimo successo scolastico e poi professionale, trovare l’amore perfetto, diventare genitori perfetti che cresceranno figli più che perfetti. Fin dalla nostra infanzia, le diverse agenzie culturali della società (e spesso la famiglia stessa) hanno installato nelle nostre menti l’imperativo «Sii perfetto/a». Così cerchiamo costantemente di rispondere ad aspettative smisurate perché solo in questo modo sentiamo di avere valore come persone. Una voce interiore ci ripete di continuo: «Non sei-non hai-non vali abbastanza». Ma nessuno realizza mai tutto! Nel frattempo, questa affannata ricerca di una perfezione irraggiungibile è estremamente dannosa: ci fa sprofondare nel senso di inadeguatezza, ci rende incapaci di accettare fallimenti e frustrazioni.
Secondo Ricardo Peter, questa nevrosi nasce da tre schemi perfezionistici collegati uno all’altro: le convinzioni centrate sull’ideale della perfezione, una volta installate nelle nostre menti, producono in noi un certo schema mentale, che a sua volta determina sia un preciso schema emotivo che uno schema rigido e nocivo di comportamenti.
Dunque: penso, sento, agisco in modo perfezionistico. E mi rovino l’esistenza! .
La triade del limite
Vediamo in estrema sintesi questo processo interno che Peter riesce a spiegare in modo tanto profondo quanto comprensibile da chiunque.
Quando siamo intrappolati nello schema mentale perfezionistico vediamo il limite e l’imperfezione come disvalori: allora vogliamo produrre e consumare illimitatamente; rifiutiamo qualsiasi limitazione ai nostri capricci; ci creiamo un’immagine ideale e perfetta di noi stessi/e, degli altri e del mondo. Ne discende uno schema di emozioni e sentimenti negativi, tra cui alcune paure tipiche: prima di tutto di sbagliare (commettendo un errore non siamo più conformi al nostro dover essere); poi quella di vivere la realtà per come accade (con la conseguenza che se le cose non si svolgono secondo il nostro film, proviamo rabbia e frustrazione smisurate); ma anche la paura di perdere il controllo sul nostro futuro (perciò detestiamo gli inciampi della vita, come rotture, lutti, malattie e di fronte agli inevitabili momenti bui dell’esistenza precipitiamo nello sconforto più nero). Ci assale la paura dell’alterità (perché chi è diverso rispetto al nostro modo di pensare e di vivere, così perfetto, ci pare una minaccia da trattare con ostilità e intolleranza); e infine, abbiamo paura del ridicolo (in ogni circostanza temiamo di apparire buffi, goffi; non sappiamo ridere di noi stessi/e né di ciò che ci capita).
Questi modi di pensare e di sentire perfezionistici diventano anche schema di comportamento con sé, con gli altri e col pianeta. Incluso anche e soprattutto un certo modo di affrontare gli errori e i limiti propri, altrui o del mondo (quella che Peter chiama la triade del limite).
La tendenza alla perfezione ci porta a essere costantemente concentrati/e sulla performance, su prestazioni nelle quali dover eccellere; a voler godere di tutto al massimo: sesso, denaro, divertimento, sostanze, qualunque sia il costo per sé o per gli altri. Spesso manifestiamo manie ossessive: siamo fissati con l’ordine, col pulito, meticolosi fino all’esasperazione… Vivendo in uno stato di ipercontrollo permanente, non riusciamo a lasciarci andare, a rilassarci o ad assaporare gli aspetti gioiosi della vita.
Ma soprattutto, dalla prospettiva perfezionistica, errori e insuccessi sono qualcosa di totalmente negativo: sbagliare è sempre e in toto un disvalore, perciò ci giudichiamo pesantemente quando accade, diventando carnefici di noi stessi/e: «Sono un fallito!». Ci sentiamo inadeguati/e, in colpa per non averlo saputo evitare, non di rado proviamo anche un sentimento di vergogna.
Nel tempo tutto ciò alimenta in noi la disistima e persino l’odio di sé, conducendoci talvolta a mettere in atto comportamenti auto-distruttivi.
Poiché ci amiamo in maniera condizionata («mi amo solo se e quando sono perfetto/a»), non proviamo nessun sentimento di auto-compassione e diventiamo disumani verso noi stessi/e.
E rispetto agli altri come siamo? Chi rifiuta i propri errori non è nemmeno capace di comprendere quelli altrui: il perfezionista non riesce ad accettare un torto, uno sbaglio, una dimenticanza.
Usiamo con gli altri lo stesso metro di giudizio che usiamo con noi stessi/e: pretendiamo che siano persone perfette, rifiutiamo i loro limiti, ne giudichiamo pesantemente gli errori, non accettiamo le loro fragilità. Il nostro, infatti, è un amore condizionato: «Ti amo solo se e quando sei perfetto/a».
Non va certo meglio il nostro rapporto con il mondo e i suoi limiti. Prigionieri del nostro perfezionismo, crediamo ciecamente che tutto possa essere illimitato: la crescita economica, il progresso tecnologico, lo sfruttamento delle risorse della Terra. Abituàti a pensarla come inesauribile e a nostra disposizione, abbiamo un comportamento predatorio e irresponsabile nei confronti della natura: il nostro rapporto col pianeta è fatto di violazione, sfruttamento e saccheggio.
Un mito tossico
Dunque, il mito della perfezione è tossico, poiché i suoi ideali sono devianti, irrealizzabili e soprattutto disumanizzanti. Allora la terapia, secondo Peter, è l’imperfezione: una scelta possibile, spiritualmente sana e l’unica via che ci permetta di diventare umani.
Se centriamo il nostro schema mentale sul valore del limite, accettiamo la limitatezza e finitezza di tutto ciò che esiste, comprendiamo che vivere dandoci dei limiti è salutare e prima ancora etico.
Abbracciando l’etica dell’imperfezione, sentiamo di avere un valore assoluto come persone, indipendentemente da ciò che sbagliamo; una vocina interna, buona e compassionevole, ci dice: «Vai bene così come sei». Ne deriva un nuovo schema di emozioni e sentimenti: proviamo facilmente empatia e compassione verso noi stessi/e; le paure sono sostituite dalla fiducia, in primis verso la vita, che gioca con noi il gioco degli imprevisti, e poi verso gli altri esseri umani, anch’essi fallaci e limitati. L’ottica prestazionale è sostituita da quella relazionale, per cui ciò che conta davvero sono le esperienze condivise. Nella nostra quotidianità riusciamo a provare gioia, a rilassarci e abbandoniamo le ossessioni perfezionistiche, accettando senza drammi stonature nel canto, macchie sulla camicia o nella vita, sbavature del trucco… E così sappiamo anche sorridere di noi stessi e dei nostri sbagli.
Ma quello che si trasforma radicalmente è il modo di considerare errori e limiti. Nella prospettiva dell’imperfezione, qualsiasi nostro errore ha anche qualche aspetto positivo ed è per lo più riparabile in qualche maniera creativa.
Senza giudizio, continuiamo ad amarci in modo incondizionato, qualsiasi guaio abbiamo combinato! Anzi, sbagliare è l’occasione per guardarci dentro, metterci in discussione, cambiare rotta.
Allo stesso modo accettiamo i limiti e gli errori degli altri: nessuno deve eccellere per meritare il nostro affetto! Quando sbagliano, ci mettiamo nei loro panni, accogliamo la loro umana fallacia, accettiamo delle scuse sincere.
Infine, il sentimento del limite ci porta ad avere rispetto, gratitudine e cura verso questo nostro fragile e meraviglioso pianeta e verso tutti gli esseri viventi che assieme a noi lo abitano.
Ma con quali “pratiche curative” si può raggiungere questo cambiamento radicale nelle dimensioni etiche, psicologiche e relazionali della vita? Ricardo Peter realizzava laboratori per la terapia dell’imperfezione: gruppi di persone si riunivano periodicamente per liberarsi dai tre schemi perfezionistici, anche tramite modalità terapeutiche inusuali, come giochi, balli, penitenze, movenze strane davanti agli altri per sciogliere il perfezionismo o la paura del giudizio e poi il lavoro a casa su questionari per l’auto-consapevolezza e con piccole sfide quotidiane ai propri imbarazzi o manie.
Una gioiosa cura di sé, dunque, l’imperfezione, ma anche faticosa pratica quotidiana e, prima ancora, una scelta netta di tipo valoriale. Una scelta etica di cui non solo noi abbiamo bisogno per il nostro ben-essere e quello di ogni nostra relazione, ma di cui hanno ancora più urgente necessità l’intera comunità umana, tutta quella vivente e la nostra casa Terra.
Poiché ritengo che l’approccio di Ricardo Peter possa avere un enorme potere trasformativo sulla nostra vita, consiglierei a tutti/e, giovani e diversamente giovani, la lettura almeno di due libri: “Una terapia per la persona umana. Aspetti teorici della terapia dell’imperfezione” e “Liberaci dalla perfezione. Come superarla in gruppo con la terapia dell’imperfezione”.
Lidia Alfano
animatrice del gruppo teenagers di Macondo