Ciascuno va bene come è

di Paolo Bartolini

Il titolo del monografico che introduco è volutamente ambiguo. In realtà non invita a superare l’imperfezione, guarendola come se fosse una malattia. Tutt’altro! Vorrei che, grazie a questo confronto, crescesse almeno un po’ in voi la disponibilità a prendervi cura della vostra imperfezione, a curarla come si cura un giardino, a intravedere l’opportunità che essa vi offre, anche se sulle prime potreste considerarla solo come un ostacolo al pieno inserimento nel mondo dei coetanei e in quello dei cosiddetti adulti.
Perfetto è – come participio passato del verbo perficĕre – ciò che possiamo considerare compiuto. Dunque, la perfezione attiene, nell’immaginario umano, a qualcosa di conchiuso, all’ottimo.
Non stupisca che, nel pensiero teologico classico, l’Ente perfettissimo, ovvero Dio, abbia in fondo caratteristiche agli antipodi di noi esseri umani. Il Dio viene pensato come immortale, onnipotente, onnisciente, sommamente buono e così via.
Ecco, dunque, che sorge il primo dubbio: non sarà che l’idea stessa di perfezione sia un tentativo di allontanarci dai limiti dell’umano? Un rifiuto delle nostre contraddizioni, fragilità e ambivalenze? Del resto, avete mai conosciuto qualche persona perfetta, senza macchia, assolutamente pura, esente da errori, sviamento, cadute? Monica Lazzaretto presidente di Macondo 19 settembre 1992, Wiener Philharmoniker.
Spinoza ci insegna che ogni essere può essere più o meno perfetto a seconda di come sviluppa la sua potenza di agire e di come permane nell’essere con gioia e in modo produttivo/creativo. Il punto decisivo, per questo grande filosofo, è che non ha senso assegnare patenti di imperfezione a creature che non sono tenute ad adeguarsi a una norma esterna. Ciascuno va bene com’è: non esiste una pietra di paragone.
Il cieco non è imperfetto, è un essere che, stanti le sue condizioni, può maturare livelli di perfezione differenti a seconda dei legami positivi che instaura con il mondo.
Attenzione quindi al pensiero velenoso secondo il quale saremmo imperfetti perché distanti da una norma stabilita che distingue i giusti dagli sbagliati, i performanti dagli scarti. Eccoci, dunque, a un aspetto dell’attualità che pesa enormemente sulle nuove generazioni: competizione, culto della prestazione, successo a ogni costo condannano il/la giovane a sentirsi inadeguato, carente, addirittura fallito. Cresce inoltre, e in modo concomitante, il rifiuto dell’errore, via imprescindibile in qualunque percorso di umanizzazione continua.
Risalta allora una contrapposizione taciuta e implicita, che va portata alla luce: nella società del consumo e dello spettacolo (una società ridotta a mercato) “perfetto” è chi riesce apparentemente a cancellare i limiti, la sua fragilità, lo spessore di una vita che non rientra mai nella cornice astratta della norma. Sul piano dell’estetica contemporanea abbiamo esempi eclatanti di ciò che il sistema non sopporta: le imperfezioni della pelle, gli elementi meno edulcorati della disabilità, il balbettio, i desideri non conformi, il non essere produttivi in senso economico, la stranezza e così via. Tutto deve essere levigato e presentabile in vetrina per attirare l’attenzione e indurre negli altri il “mi piace”.

L’ambizione di correggere l’incorreggibile
Sicuramente, dal punto di vista genealogico, l’origine di questa idealizzazione per il compiuto, insieme ai corrispettivi fantasmi di purezza, deriva nel campo della filosofia dal primato del concetto sull’ambivalenza dei corpi. La mossa di Platone è quella di fondare la conoscenza e di aspirare a un ordine sociale armonico, superando la negatività insita nella materialità della nostra vita.
Da qui la presunzione che tutto ciò che esiste sia una specie di brutta copia di idee perfette che abitano, intoccate dal tempo e dalla dissipazione, nell’iperuranio. Il bene, come l’anima, è concepito in antitesi a quel male quotidiano che deriverebbe da un corpo indocile, vittima di passioni difficili da governare, destinato a malattia e morte certa.
È quindi possibile che la ricerca di una perfezione priva di vuoti e di difetti coincida con la previa separazione tra corpo e anima, bene e male, temporalità ed eternità. Uno dei due poli prende il sopravvento sull’altro. Nasce così l’ambizione di correggere l’incorreggibile essere umano, di condurlo verso la meta di una vita liberata da tutti i limiti e dalla negatività.
Progetto giunto al suo culmine con la modernità e la sua idea di progresso, fino all’odierno crollo di queste fantasie.
Si ponga attenzione al fatto che il cammino ideale verso una vita comune e individuale non inquinata dal molteplice, dalle passioni, dai comportamenti irrazionali, fallisce storicamente perché l’umano è complesso, niente affatto unitario, mosso da desideri e tropismi che non affondano le radici nell’io, nella volontà, nei sogni di perfezione, ma in un intreccio di lasciti ereditari, culturali, familiari, ecologici…
Per quanto si voglia essere perfetti, inappuntabili, inattaccabili (seguendo spesso le ingiunzioni introiettate dalle figure familiari che ci hanno cresciuti) qualcosa si ribella in noi. Il ragazzo che a scuola era il primo della classe, ora soffre per amore e tira i remi in barca nello studio abbassando il suo rendimento; la ragazza sempre curata e carina, si colora i capelli e vuole tatuarsi; il figlio di buona famiglia che piace a tutte le coetanee si scopre omosessuale e sogna di esplorare questa dimensione della sua vita; lo sportivo provetto, abituato a brillare nelle prove agonistiche inorgogliendo l’allenatore e i genitori, vuole abbandonare la pallavolo e dedicarsi alla pittura o a suonare la batteria; la figlia del ricco industriale non ci pensa minimamente a entrare nell’azienda paterna e diventa un’attivista per la giustizia ecoclimatica; il giovane cattolico altruista e dedito al volontariato la notte sogna di comportarsi in modo egoistico e spietato con qualcuno… Sono migliaia i modi con cui proviamo a sottrarci al mito della perfezione, come corrispondenza integrale a modelli astratti di successo e compiutezza, opponendo resistenza a questa uniformazione che vieta di contattare altre dimensioni del nostro essere (e le nostre zone d’ombra).
Ma perché resistere? In quanto ognuna/o di noi ha bisogno di scoprirsi, di esplorare nuovi legami, di non coincidere con l’immediatezza delle aspettative dominanti. Non abbiamo bisogno banalmente di essere “vincenti”, bensì di sentirci vivi insieme agli altri, di coltivare il desiderio che ci rapisce e ci spinge oltre il perimetro dei codici prescritti.

Imperfezione come opportunità
Sul piano socioeconomico e politico l’imperfezione oggi rappresenta, se ben compresa, un’opportunità. Essa rivendica l’irriducibilità delle nostre vite all’utile, al calcolo. La vita è autoaffermazione, non serve a qualche fine esterno e ulteriore. Quindi “non funzionare”, al tempo degli algoritmi e della società fabbrica, significa salvaguardare l’esistenza, il senso di meraviglia per l’imprevisto, la potenza di agire assumendo responsabilmente limiti e fragilità.
Questo discorso non sfocia in un superficiale compiacimento per ciò che ci rende imperfetti, o nel mito della marginalità, ma in un graduale lavoro – faticoso ed entusiasmante – di conoscenza di sé e della propria «geografia interiore» (Benasayag), affinché si dia un perfezionamento etico continuo come esercizio spirituale, non nell’ottica di una perfezione ultima da conquistare, bensì di un coinvolgimento sempre più consapevole nell’avventura comune che è la vita.
Ecco dieci punti cruciali per abitare l’imperfezione in modo stimolante e non autoassolutorio:

1) rimettere il corpo vissuto, i sentimenti e le emozioni al centro del nostro interesse e della comprensione;

2) liberarci dal pensiero di non essere “come si deve”;

3) provare, un po’ alla volta, a sostituire l’ansia di perfezione/prestazione con l’arte dell’integrazione (possiamo essere “compiuti” in un senso nuovo, che tenga insieme in modo generativo qualità e limiti, luci e ombre, paura e coraggio, forza e fragilità, secondo una logica dell’et-et, invece di piegarci al pensiero divisivo e dicotomico dell’aut-aut);

4) dare un senso alla sofferenza diffusa che attanaglia il cuore e l’anima dei giovani (sofferenza giustificata perché registra una crisi epocale che gli adulti faticano ad ammettere e non sanno come risolvere);

5) riconoscere che la creatività mira non alla perfezione di un compimento definitivo, ma a tenere aperta la realtà nel suo processo di inveramento continuo: dinamica caos/ordine, tensione generativa e impossibilità di raggiungere una forma ottimale definitiva (dunque statica e cristallizzata);

6) darsi come fari luminosi di un’etica elementare la solidarietà e l’empatia, anteponendole alla competizione (senza per questo rinunciare ad affermare i propri talenti, anzi farlo per-sé-e-per-gli-altri, in un’ottica di condivisione delle proprie capacità migliori);

7) smettere di nascondere forzatamente la fragilità e imparare a parlarne con gli altri, in un confronto sereno dove non esistono, nemmeno tra gli adulti, umani perfetti e impeccabili che possano giudicare il/la giovane e farli sentire sbagliati;

8) ripensare alla radice il concetto di successo (participio passato che rende bene l’idea di quanto tale concetto sia volatile e non possa dare soddisfazione duratura: se è “successo” è già alle nostre spalle);

9) rivalutare la solitudine come occasione di contatto con sé e non come fuga o ritiro dal mondo per paura di essere rifiutati, sminuiti, contraddetti;

10) coltivare legami che aumentino il senso di potenza, riducendo l’abuso dei cosiddetti piaceri tossici (smartphone, acquisto compulsivo di merci alla moda, cibo spazzatura, videogiochi, ricerca del “like” sui social…). Ecco come, in conclusione, questo decimo punto si ricollega al primo tenendo insieme tutti gli altri: solo mettendo in gioco i nostri corpi animati è possibile immaginare una via, un cammino comune che rispetti la soggettività di ciascuno. Perché il corpo è il luogo di incontro con l’Altro, là dove negoziamo con il mondo identità e appartenenza, libertà e mutuo-aiuto, unicità e partecipazione, conflitto e amicizia.

Paolo Bartolini

analista biografico a orientamento filosofico, saggista e formatore, i suoi lavori e la sua libera ricerca si sviluppano al
crocevia tra filosofia, psicologie del profondo, critica sociale e spiritualità laica.