Perché l’Europa si indebolisce nel mondo?

di Andrea Gandini

I BRICS 1 fanno un ulteriore passo verso l’espansione (ad altri Paesi) e il rafforzamento dell’alleanza in funzione anti occidentale e per costruire le condizioni di un indebolimento del ruolo del dollaro (e dell’Occidente) nel mondo. L’obiettivo è un mondo multipolare, dove l’egemonia Usa degli ultimi 100 anni
viene sostituita non da quella dei BRICS, ma da un duopolio, formato da Usa e BRICS, che poi significa Usa vs Cina anche se India e Brasile hanno una posizione più dialogante con Usa e Occidente e potrebbero in futuro diventare un punto di equilibrio (terzo polo?) tra Usa e Cina se solo l’Europa fosse indipendente e
meno americana dell’attuale. Per i nostri maggiori giornali ed “esperti” i BRICS sono un Asse del Caos (che sostituisce l’espressione Asse del male), in quanto sii rendono conto che prima o poi verrà meno la leadership degli Usa nel mondo e ciò, lo getterà, secondo loro nel caos, come se già non lo fosse stato
abbastanza con l’egemonia americana.

La tesi è che noi occidentali siamo democrazie, società aperte (secondo la definizione di Popper) e “loro” democrature o autocrazie. La parola “democrazia e la sua esportazione” ha sostituito nei secoli quella della “salvezza delle anime” dei secoli passati. Allora c’era almeno la scusa che dietro le nostre azioni civilizzatrici (sic) ci fosse l’idea morale di un Dio trino e di una religione (ciò che interessava erano anche allora potere e denaro), oggi c’è esplicitamente la difesa del “Dio quattrino”. Perché infatti è così importante lo scambio in dollari e non si può fare una moneta mondiale come chiedeva pure Keynes dopo la 2a guerra mondiale basata su un paniere di monete forti e di materie prime che non desse il privilegio ai soli Stati Uniti?

Il motivo è semplice: il risparmio dei cinesi (che sono una autocrazia) finisce nelle banche cinesi che lo usano per investire nel loro paese e nelle loro imprese (e non seguono le regole del liberismo in questo campo). Gli americani (che non risparmiano e hanno inventato le rate per iper consumare) raccolgono i risparmi da tutti i paesi che commerciano in dollari e anche dagli europei, che, fessi come sono, hanno quasi tutte le loro banche controllate da fondi americani. Così lo usano per il loro Paese e le loro imprese. E il tasso di interesse della Federal Reserve Usa condiziona buona parte del mondo. Come si vede qui la democrazia c’entra poco, c’entrano invece eccome i soldi.

Gli Europei se fossero astuti, sganciandosi dagli Stati Uniti (seppure alleati), lavorerebbero per un mondo multipolare in cui i popoli, il loro sviluppo, le loro anime e le loro culture se le trovassero da soli, magari anche grazie al nostro esempio di come si costruisce una società basata sul welfare, i diritti e l’eguaglianza (anziché inseguire il modello demenziale americano) e non usando la pressione militare, economica e politica come si è fatto negli ultimi 50 anni. E, a proposito di “lezioni” agli altri popoli, non abbiamo noi seri problemi al nostro interno di democrazia con un modello che vede crescere sempre più le disuguaglianze, spaventose concentrazioni di ricchezza (i nostri oligarchi), l’uso del digitale come distruzione dell’infanzia e la crescita di forme di democrature digitali che restringono di fatto le vere libertà (socio-economiche e salari) della grande maggioranza?

E che dire della “società aperta” di Popper nel momento in cui introduciamo sempre più dazi per proteggerci dalle merci dei BRICS? Nonostante le nostre difese cresceranno in futuro molto più dell’Occidente e già hanno il triplo della nostra popolazione e si avviano a includere altri Paesi popolosi e in crescita come Vietnam e Indonesia. Il loro sviluppo è sostenuto da una più ampia e povera popolazione e attraggono gli altri paesi del mondo più degli Americani (il resto dell’Occidente segue per ora come ascari). Ci sarà pure una ragione? E anziché chiederci se abbiamo sbagliato qualcosa e dare qualche segno di umiltà e dialogo si continua a pensare come se fossimo nel secolo XX.

E siccome ci crediamo “migliori” fa impressione vedere che il recente accordo dei 38 paesi Ocse entrato in vigore quest’anno sulla tassazione delle multinazionali (pagano il 15% di imposte che vanno redistribuite nei paesi di origine dei consumatori-clienti) è stato clamorosamente bocciato il 16 agosto 2024 da 110 Paesi del Sud del mondo in sede ONU, in quanto lo ritengono iniquo e sbilanciato a favore dei paesi ricchi dell’Ocse. Otto Paesi hanno votato contro la maggioranza ONU (Usa, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Sud Corea), gli attuali anglosassoni che regolano le principali Istituzioni mondiali e 44 si sono astenuti (tutti gli europei Italia inclusa).

Un segno inequivocabile di dove va nel futuro il mondo. Mentre nei 38 Paesi Ocse (i più ricchi) si vota cercando quasi sempre un accordo e chi si astiene è come se votasse a favore, all’ONU ogni paese conta per un voto e la probabilità che l’Occidente vada in minoranza su varie risoluzioni cresce (le risoluzioni passano col voto a favore dei 2/3 dei 193 paesi membri) e quindi l’Occidente (Ocse, G7,…) rischia di andare sempre più in minoranza quando ha palesemente torto. Il segretario ONU ha poi proposto che l’Africa esprima un suo membro nel Consiglio di sicurezza ora formato solo dai 5 “permanenti” vincitori della 2a guerra mondiale: Usa, GB, Francia, Russia e Cina.

E l’Africa sta lentamente ma inesorabilmente sempre più schierandosi con Cina e Russia, abbandonando Usa e Francia da quando ha capito (nel 2015 con la sconfitta in Siria degli Usa) che gli equilibri mondiali stanno cambiando a favore dei BRICS. I paesi poveri sanno bene che nei prossimi 10 anni saranno almeno 4.800 i miliardi di dollari persi grazie ai paradisi fiscali e vuoti legislativi2. Il testo finale sarà esaminato solo nel 2027 ma la probabilità che l’Occidente vada in minoranza è alto, anche perché sono in Europa (Irlanda, Olanda, Regno Unito, Svizzera, San Marino) non inclusi nella lista nera dei principali paradisi fiscali Ocse, insieme ai territori britannici d’oltremare (Isole Vergini, Bermuda, Cayman), i più gettonati al mondo.

Di fronte a questo cambiamento epocale la nuova Europa avrebbe potuto diventare, sganciandosi dagli anglosassoni, diventare il terzo polo mondiale capace di portare pace, armonia ed equilibrio nel XXI secolo. La scelta è stata invece quella di diventare lo zerbino degli anglosassoni e subire così in prima persona le conseguenze negative del tramonto anglosassone. L’idea occidentale di pensarci come l’Asse del “Bene” che difende libertà e diritti in un mondo dove gli altri sono l’asse del “Male” (o del Caos, nella versione di Federico Rampini) è considerata sempre più ridicola e a doppio standard ed è destinata, ora che non c’è più la forza militare degli Usa a difenderla, al declino. L’istituto indipendente Levada ha chiesto ai russi se considerano nei loro interessi una democrazia in stile occidentale. Il 13% ha risposto affermativamente, il 16% preferisce una democrazia “sovietica” e il 55% è a favore dell’attuale governo che corrisponde alle “specifiche tradizioni nazionali russe”. Nel profondo dello spirito imperiale dei russi, il modello occidentale è vissuto come un cavallo di Troia per spaccare la patria e gettarla nel caos, com’è avvenuto nei 10 anni di “democrazia occidentale” (dal 1991 al 2000) che hanno devastato e impoverito il paese e fatto fuoriuscire (con gli oligarchi) l’85% della ricchezza nazionale nei paradisi fiscali anglosassoni. Ovviamente questo non giustifica Putin ma contribuisce a far capire cose che sui nostri media non si scrivono (ma si sanno).

L’Unione Europea è nata con un peccato di origine: essere il più grande mercato unico al mondo ma senza autonomia politica. Senza una propria politica estera, una propria difesa, senza l’ambizione di portare nel mondo la sua visione di società (e senza delegarla agli Stati Uniti). Nei suoi primi 20 anni il progetto (seppure monco) ha funzionato, anche se a discapito dei Paesi del Sud Europa (inglobando quelli dell’Est), con crescenti disuguaglianze e povertà, col calo del ceto medio europeo e dei salari di molti strati operai.

La globalizzazione faceva si che l’Europa potesse beneficiare sia dell’alleanza con gli Stati Uniti, sia dell’amicizia con Cina e Russia. Nel momento in cui però si è delineato un bipolarismo ostile tra Stati Uniti e Cina-Russia (cioè Brics, dal 16 giugno 2009), l’Europa (colpita anche dalla recessione dei sub prime made in Usa) perde tutti i vantaggi dell’essere equidistante che prima aveva. Gli Stati Uniti infatti ci impongono di stare dalla loro parte, pur sapendo che potrebbero perdere la partita della leadership mondiale nel XXI secolo. Ma se anche la perderanno (cosa probabile) gli Stati Uniti hanno risorse enormi (forza militare, finanza, dollaro, energia e materie prime) per durare a lungo e non rimetterci più di tanto.

Chi invece ha tutto da rimetterci da questo scontro è l’Europa che importa la maggior parte dei beni (materie prime e intermedi) da paesi che sono spesso in area Brics e che pagano quelli USA a prezzo maggiore (gas, metano, petrolio, etc.).

L’Europa ha inoltre un enorme export. In Italia contribuisce al 40% del PIL e la Cina è uno dei principali mercati di sbocco. Ciò vale ancor più per la Germania che vende in Cina il 10% delle sue auto e molto altro e da lei prende materie prime e intermedie a basso prezzo senza le quali la sua economia è già entrata in recessione, anche per la rottura commerciale con la Russia che era un partner ideale scambiando materie prime a basso costo con tecnologia tedesca.

Un danno lo riceveremo anche dal crescente protezionismo che hanno avviato Usa e Cina. Anche l’Europa può proteggersi con dazi e tariffe ma con infinite minori risorse di quelle di cui dispongono i due colossi, se pensiamo al miserrimo bilancio europeo (1% del Pil europeo).

Se ci fosse un’Europa politica potrebbe potenziare la cooperazione industriale e dei servizi tra i 27 paesi che la formano, ma, non avendo ciò (né welfare comune, nè un governo federale), prevalgono logiche nazionali che rendono complicate le alleanze tra imprese di diverse nazioni nonostante si sappia bene quanti vantaggi abbia portato il progetto europeo di Airbus che si è imposto nel mondo anche all’ex leader, l’americana Boeing. Più procede la lotta ostile tra Usa e Cina, più aumenteranno le proteste nei singoli paesi europei che saranno in modo diverso colpiti da questo scontro in base alle loro produzioni: mentre protestano le imprese tedesche dell’auto per i dazi UE sulle auto cinesi, Stellantis smantella le produzioni in Italia e compra il 51% del ramo commerciale dell’azienda cinese (Leapmotor) e si accorda per vendere le auto cinesi (ma solo in Europa) e guadagnarci come commerciante. L’inizio di cento battaglie che daranno fiato alle destre europee nei singoli paesi.

Eppure c’era un’altra via: diventare leader nel mondo di un nuovo multilateralismo che includesse i nuovi paesi emergenti. Ma per questo ci vuole autonomia politica, un vero governo federale (che si occupa non solo di moneta e mercati ma anche di occupati e welfare), accordi di sviluppo in chiave transfrontaliera, un aiutarsi l’uno l’altro tra i 27 per diventare forti nel mondo. Una mancanza di autonomia politica che prima o poi metterà a rischio la stessa democrazia.

In Europa allora molti leader di sinistra (Enrico Berlinguer in Italia, Olaf Palme in Svezia, Willy Brandt in Germania,…) elaborarono proposte di un nuovo assetto mondiale. Il G7, nato nel 1975, aveva invece il compito sotto la guida degli Usa, di rinsaldare la cooperazione tra paesi occidentali, il FMI, la Banca Mondiale anche per imporre ai paesi più deboli (spesso indebitati) le regole dell’austerity (privatizzazione e liberalizzazione). La sovranità sulle risorse naturali affermata dall’ONU nel 1962 fu allegramente bypassata da accordi bi-laterali e multilaterali o da Corti giudiziarie internazionali (nominate dall’Occidente) che mettevano in discussione le pretese dei Governi locali.

Uno degli obiettivi della globalizzazione avviata nel 1999 è stato proprio quello di sconfiggere il progetto di un “nuovo ordine mondiale” più egualitario tra Paesi e dare la possibilità a tutte le multinazionali di disporre di bassi costi del lavoro nei paesi poveri e di bassi costi delle materie prime. Nello stesso tempo ha avviato una predazione di risorse naturali senza precedenti se si pensa che dal 1900 al 2000 il consumo di risorse materiali è stato di 700 milioni di tonnellate (Gt) e negli ultimi 20 anni (dal 2000 al 2023) è stato 3 volte superiore. E’ stato calcolato che in un solo anno degli ultimi vengono estratte più risorse naturali ed energetiche di quante la specie umana ne abbia estratto dalla sua comparsa sulla Terra fino al 1950. Un dato clamoroso che chiarisce la totale insostenibilità del modello di produzione capitalistico esportato in tutto il mondo.

La globalizzazione ha avuto però un “effetto collaterale” imprevisto dagli Stati Uniti, la crescita di molti Paesi poveri tra cui la Cina, che si è rafforzata anche militarmente con l’alleanza con la Russia (spinta dalla ingordigia di potere Usa –via Nato con l’espansione dell’Europa ad Est e fino all’Ucraina-) gettando la Russia in braccio alla Cina, la quale oggi contende il dominio occidentale non solo in base a forza economica e militare ma anche in base alla competizione nei settori tecnologicamente avanzati, in quanto dispone della maggioranza delle materie prime e delle terre rare di cui abbisognano i prodotti high teck e green (auto elettriche, pannelli solari, rinnovabili, tlc,…). Materie prime che, insieme a forza economica e potere militare, faranno la 3^ gamba dello sgabello su cui si reggerà la forza della nuova moneta che competerà col dollaro.

Nel “mirino” dei BRICS c’è ora la supremazia monetaria del dollaro nel sistema finanziario internazionale. La “resistenza” occidentale è dovuta al fatto che l’attuale sistema genera per le élite straordinari profitti, mai visti negli anni passati. La finanza ha accumulato utili nel solo 2023 per 104 miliardi di dollari solo speculando sulle commodity. Oltre alla speculazione ci sono poi le pressioni e corruzioni dei deboli Governi locali e ciò sta portando a rivolte come quella del Senegal che vuole rivedere gli accordi sul petrolio con le compagnie occidentali, del Cile che vuole la maggioranza sulle aziende private del litio, l’Indonesia che ha vietato l’export del nickel imponendo la raffinazione locale. Con questi Paesi sarebbe opportuno che l’Europa dialogasse cambiando però i rapporti diseguali disegnati (spesso dagli Usa) mezzo secolo fa. Ma ciò significa fare accordi che favoriscono i Paesi produttori di materie prime e i nostri consumatori a danno della finanza e dei trader (spesso anglosassoni), in paesi spesso indebitati che vengono ricattati con la presenza di aziende occidentali che sfruttano risorse locali e senza la presenza minacciosa di Arbitrati internazionali che con la scusa di difendere la proprietà privata, difendono le imprese occidentali. Un bel problema per il nostro Occidente e di una logica in cui il rappresentante della politica estera della UE Josep Borell ha definito l’Europa un “giardino” minacciato dalla “giungla” (il resto del mondo) che lo può invadere. Dietro le nuove catene del valore c’è tanta falsità di un non parlar chiaro che sarebbe poi la logica del potere e dello sfruttamento, in sostanza una nuova forma di colonialismo e controllo (via militare) che il “Sud del mondo” non è più disposto a subire.

In molti parchi europei si adotta ora il “terzo paesaggio”: giardini curati ma anche zone di erba spontanea che fanno bene alla diversità e costano meno di manutenzione. Una prospettiva nuova che potrebbero aprire Europa e Sud del mondo: speranza, ultima dea.

1 Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica oggi rappresentano il 27% della ricchezza mondiale, il 41% della popolazione e il 42% della produzione di petrolio. Nel 2014 si sono aggiunti Egitto, Iran, Emirati Arabi Uniti, Etiopia (ma decine sono in attesa, tra cui Indonesia e Vietnam). Tra loro ci sono idee diverse e conflitti, ma sono uniti dalla volontà di porre fine al dominio degli Stati Uniti nel mondo (militare, economico, nel controllo delle Istituzioni mondiali come Banca Mondiale, FMI, WTO, OCSE, G7, etc.). Provengono spesso dalla dolorosa storia del colonialismo occidentale e ci raccontano che l’era della “globalizzazione” e del mondo piatto come piaceva agli Usa è finita. I nostri media e le élite occidentali parlano spesso di fronte a questo fenomeno di “salto nel buio”, di “frammentazione geopolitica”, di “ascesa di dittature e democrature”, mossi dalla paura di perdere il controllo sul mondo (una deformazione Usa). Anche all’inizio degli anni ‘70 ci fu una situazione simile, gli Stati Uniti avevano annunciato la fine del cambio fisso del dollaro con l’oro, gli accordi usciti dalla guerra di Bretton Woods sembravano in crisi e l’impopolarissima guerra degli Usa in Vietnam, aveva fatto sorgere il movimento dei Paesi “non allineati”, spesso possessori di materie prime che rivendicavano una redistribuzione della ricchezza mondiale tramite nazionalizzazioni, nuovi accordi commerciali a loro più favorevoli. Nel 1973 i Paesi Opec produttori del petrolio imposero un massiccio aumento dei prezzi che portò a crisi nei paesi ricchi (molti ricorderanno in Italia le domeniche a piedi).

2 Fonte: Università scozzese St. Andrews, Report The state of Tax Justice, 2023.

Andrea Gandini

Andrea Gandini

Economista, analista del futuro sostenibile.