Place de la République
Gioventù meloniana
L’inchiesta di fanpage.com sulla “gioventù meloniana” ha terremotato stampa e politica. Se avete un’ora e mezza di tempo vi consiglio di vederla integralmente su YouTube. Dall’inchiesta “sotto copertura” (cioè con telecamere nascoste) emerge con chiarezza – al netto di qualche forzatura giornalistica – un’immagine inquietante del sottobosco di Gioventù Italiana, la sezione giovanile del partito Fratelli d’Italia, inquinato da sentimenti e intenzioni nazifasciste e antisemite.
L’effetto è stato come “scoperchiare la pentola”, ha riaperto il dibattito, anzi, lo scontro su fascismo e antifascismo nell’Italia del terzo millennio. Al tentativo iniziale di alcuni esponenti politici di destra di minimizzare («ragazzate», «goliardia») e di attaccare la stampa sotto copertura, quindi la libertà di stampa in generale, è seguito un ordine preciso di Giorgia Meloni di «far pulizia», eliminando dal partito (oggi di governo) i nostalgici del ventennio.
Giorgia Meloni va ripetendo che il suo partito, erede diretto del Movimento Sociale Italiano del repubblichino Giorgio Almirante, ha fatto da tempo i conti con il fascismo storico e condannato più volte lo squadrismo e il totalitarismo.
Che le si può chiedere di più? Due cose, che Giorgia non ha nessuna intenzione di fare.
Numero uno: dichiarare che Fratelli d’Italia è un partito antifascista. Numero due: togliere la fiamma missina dal simbolo del partito.
La fiaccola ardente
Usare o non usare certe parole e certi simboli è una scelta nient’affatto secondaria. Parole e simboli non solo ci legano alla memoria, ma ci rappresentano, ci identificano.
Rifiutare di dichiararsi antifascista, quando la nostra democrazia (e la nostra Costituzione) è nata dalla Resistenza e dall’antifascismo, lascia aperto uno spazio di ambiguità, un richiamo per quella minoranza che vorrebbe il ritorno del fascismo e dell’intolleranza.
Stesso discorso vale per la fiamma tricolore, che è da sempre un segno distintivo delle formazioni di estrema destra e dei partiti che si richiamano al fascismo – poco importa se l’origine di quel simbolo sia la fiamma del distintivo del reggimento degli Arditi o, come sostengono altri, rappresenterebbe la fiaccola ardente sulla tomba di Benito Mussolini. Anche la fiamma è un segnale preciso, un richiamo, una porta aperta a un passato e a un futuro che con i valori democratici non ha nulla da spartire.
I veri pericoli per la democrazia
Se l’antinomia fascismo/antifascismo continuerà ad animare il dibattito e la polemica culturale e politica italiana, sono altri i terreni dove si sta giocando una radicale trasformazione del nostro paese. Sono tre i temi – presidenzialismo, autonomia differenziata e riforma della giustizia – su cui la destra, finalmente al governo, sta cercando di imporre la sua egemonia. Se questo ambizioso progetto andrà in porto, e Giorgia Meloni vuole arrivarci entro la fine della legislatura, ci consegnerà un’Italia totalmente diversa da quella che abbiamo conosciuto, nel bene e nel male, dal dopoguerra a oggi.
Per definirla non è sufficiente parlare di seconda repubblica. Cambierà infatti tutto l’impianto politico istituzionale con lo stravolgimento di alcuni cardini della nostra Costituzione; non sarà solo la fine del primato del Parlamento (già cannibalizzato da almeno un ventennio dal potere esecutivo), ma segnerà una chiara svolta autoritaria. Un presidente direttamente eletto, dominus assoluto del paese (molto più che in Francia), un presidente della repubblica senza più potere e con funzioni puramente rappresentative, una magistratura (ex potere indipendente) al guinzaglio del ministero della Giustizia. Infine, c’è la grande partita dell’autonomia differenziata, già approvata dal parlamento, che spaccherà definitivamente l’Italia in due, smontando 170 anni di una difficile storia unitaria.
Si preparano i referendum abrogativi (con la difficoltà di raggiungere il quorum) e già sono partite le macchine contrapposte della propaganda. La speranza è che gli italiani vengano informati correttamente, dettagliatamente, sulle conseguenze che queste riforme potranno avere sulla vita di ognuno. Sulla scuola, sui servizi sociali, sulla sanità pubblica. Sulla democrazia. Sulla libertà.
Il nuovo nome di Milano Malpensa
Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, in attesa (speriamo vana) di montare il cantiere del Ponte sullo Stretto, annuncia che l’aeroporto internazionale di Malpensa, uno dei più importanti d’Italia, verrà intitolato a Silvio Berlusconi, imprenditore di successo e politico controverso: voleva trasformare l’Italia in un’azienda efficiente, ma ha lasciato solo macerie. Era stata sua l’idea, faraonica come si deve, di costruire il ponte tra Scilla e Cariddi, un’idea che il governo di destra ha prontamente riesumato.
Qui però non interessa tornare sulla figura di Berlusconi, che nel bene o nel male resiste al tempo, tanto da riaffacciarsi da morto nel simbolo di Forza Italia, il partito da lui fondato trent’anni fa.
E neppure riaprire il discorso sul Ponte sullo Stretto.
Qui si tratta solo di aeroporti. La stragrande maggioranza degli scali italiani non ha un nome, si chiamano semplicemente con la città in cui sono ubicati. Con qualche eccezione. Quello di Bologna, intitolato a Guglielmo Marconi, quello di Pisa, Galileo Galilei, quello di Firenze, Amerigo Vespucci. Accanto a questi giganti, intitolare Milano Malpensa al Cavalier Berlusconi non appare solo incongruo, ma ridicolo. Non è però un omaggio post mortem al capostipite del neoliberismo nostrano, ma un altro piccolo mattone per costruire la nuova egemonia della destra al potere.
Breve riassunto elettorale
Alle elezioni europee la destra avanza, ma non sfonda. Ci terremo Ursula von der Leyen e la stessa Europa di prima: divisa al suo interno, ineguale, inefficiente, succube dell’America.
In Italia: gran risultato della destra di Fratelli d’Italia, buon risultato del Partito Democratico, flop della Lega, resurrezione di Forza Italia. Amministrative senza scosse. Quadro politico bloccato.
Le novità vengono da fuori: due elezioni e due storici risultati, in Gran Bretagna e in Francia.
Nel Regno Unito, complice il sistema uninominale secco, il Labour fa man bassa di deputati (non di voti) e torna al potere dopo 14 anni. Il nuovo leader e primo ministro Keir Starmer è figlio di operai, ma ha un profilo da moderato. Dice di voler ricostruire la Gran Bretagna «mattone su mattone». Un bel programma ma, se seguirà l’esempio di Tony Blair, non cambierà molto: abbiamo imparato che il liberismo ha molte facce.
In Francia il “barrage” contro l’estrema destra di Marine Le Pen (una roba francese che in Italia non è mai riuscita) ha funzionato ancora una volta e questa volta oltre le attese. Al ballottaggio la destra del Rassemblement National non solo ha fallito l’obiettivo della maggioranza assoluta o almeno relativa, ma si è piazzata al terzo posto, dietro la sinistra e dietro il centro di Macron.
Nessuno schieramento può formare un governo da solo. Il grande vincitore è Jean-Luc Mélenchon, il leader del Nuovo Fronte Popolare, che si è subito detto pronto a governare, ma i macroniani, salvati al secondo turno proprio dai voti della sinistra, non accettano l’alleanza con la sinistra. Si apre quindi una fase di grande incertezza e di probabile ingovernabilità. Forse vedremo in Francia un governo di minoranza, o un governo tecnico (l’Italia ne sa qualcosa) e probabilmente fra un anno la Francia tornerà al voto.
In definitiva, né in Francia né in Gran Bretagna è arrivata la rivoluzione. Non ci saranno governi di svolta, capaci di ribaltare la deriva neoliberista e imporre una nuova democrazia. Almeno per ora. Ma se la destra sembrava destinata a conquistare l’Europa, in Francia e in Gran Bretagna hanno vinto i valori della democrazia, dell’eguaglianza e della tolleranza. Lo spettacolo di Place de la République gremita di giovani e giovanissimi in festa mostra il ritorno in campo (il campo della politica) delle giovani generazioni: è da loro che ci si può aspettare un vento nuovo.
Umiliati e offesi
Il disegno di legge, già passato al Senato, fortemente voluto dal ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, reintroduce il voto in condotta, lo spauracchio che tutti ricordiamo. Non è solo un ritorno all’antico, ma un ritorno all’ordine. Dietro quel numero c’è un cambiamento significativo nella valutazione del comportamento degli studenti. Il voto di condotta diventerà più influente e sarà considerato nell’arco dell’intero anno scolastico: chi avrà l’insufficienza andrà incontro alla sospensione, o addirittura all’espulsione.
Mentre la scuola italiana è sempre più abbandonata a sé stessa, stretta tra la mancanza di finanziamenti e la follia aziendalista, mentre cresce il disagio giovanile e aumentano gli abbandoni scolastici, il ministro Valditara ripropone la via dell’autoritarismo e della meritocrazia: se i giovani sono “storti”, bisogna raddrizzarli. Con ogni mezzo. Ecco le sue parole durante un convegno a Milano: «Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri». Poi, a proposito della “giustissima” punizione inflitta a una mela marcia: «Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche, evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».
Per fortuna io ho concluso il mio obbligo scolastico molto prima dell’era Gelmini e Valditara. Anche ai miei tempi c’era quell’assurdo voto, che pretendeva di misurare il mio comportamento sociale.
Ero un ragazzo piuttosto agitato, ma me la cavavo sempre, appena sopra il minimo sindacale: 7 in condotta.
Le carote di Jannik Sinner
A vent’anni giocavo anch’io a tennis. Qualche partita con gli amici, niente agonismo, livello basso, appena sopra le prestazioni di Fantozzi. Erano i tempi di Adriano Panatta, simpatico perché non si dannava mai con allenamenti intensivi: genio e sregolatezza. Ma l’Italia non è mai stata il paese del tennis, il tennis non è mai stato uno sport di massa.
Fa un po’ ridere oggi la famosa frase di Mussolini (2 ottobre 1935) poi immortalata su un palazzo dell’EUR, dove l’Italia sarebbe «un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori». Più vero invece è che in Italia, durante le grandi competizioni internazionali, ci sono 59 milioni di commissari tecnici. Il calcio è sempre stato lo sport nazionale e nel calcio si è sempre riversato il nazionalismo di un paese (per fortuna) poco incline al nazionalismo politico e alla grandeur. Succede però che l’Italia viene bocciata ed esclusa dalla fase finale degli ultimi due Mondiali. Pochi mesi fa è uscita miseramente anche dagli Europei. E adesso? Per fortuna arriva Sinner, il suo arancione carota, il suo sorriso da ragazzo educato. E leggo con stupore che agli ultimi Internazionali di Roma al Foro Italico si sono iscritte 50.000 persone. Non per assistere, ma per partecipare: per superare le durissima selezione e poter calpestare la terra rossa dei campioni.
Se il calcio ci tradisce, deviamo su Jannik Sinner e Jasmine Paolini. Così oggi siamo tutti tennisti, ma prima saltavamo in alto con Tamberi o correvamo i 100 metri con Jacobs. Abbiamo sempre un’alternativa per sentirci fieri di essere italiani. Ma fieri di che cosa? Non saprei, la frase non ha senso ma non c’è dubbio, ne abbiamo bisogno.
Francesco Monini
direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio, vive e lavora a Ferrara