Il non voto, il platano e“Persone e Comunità”
Una tempesta sterminatrice di votanti
Alle ultime elezioni europee la maggior parte degli elettori si è astenuta: non ha votato il 51,7 per cento di chi ne aveva diritto. Il picco è stato a Nuoro, con il 70,2 per cento di astensione. Hanno vinto in due, secondo universale giudizio: Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Ma se si considerasse l’astensione come un partito, sarebbe il più votato, mentre Fratelli d’Italia finirebbe al secondo posto con il 14,1 per cento dei voti, il Pd all’11,8 e i Cinquestelle al 4,9. Gli italiani ormai faticano a prendere la strada del seggio. Un tempo succedeva esattamente il contrario. Il record di affluenza ci fu nelle elezioni politiche del 7 giugno 1953 con una percentuale di 93,84 per cento: cinque anni dopo, nel 1958, la percentuale scese di un solo centesimo di punto, 93,83, meno di un soffio. Da allora il calo, pur costante, è stato contenuto fino agli anni Ottanta. Poi il tracollo. Alle politiche siamo precipitati dal 72,9 per cento del 2018 al 63,9 del 2022: perdere in quattro anni 9 punti percentuali è da Guiness dei primati. Alle elezioni europee del giugno scorso hanno votato 14 per cento in meno rispetto delle politiche di due anni prima e 8 per cento in meno rispetto alle Europee del 2019. Niente di lontanamente paragonabile alle prime elezioni europee del 1979, quando votarono 86 italiani su 100. È arrivata una tempesta sterminatrice di votanti, che pare ben poco intenzionata a lasciare i nostri cieli. Non lascia presagire niente di buono, oltre al silenzio dei vincitori, che fanno finta di niente, pure quello dei vinti. Che una volta avrebbero almeno azzardato la debolissima difesa di un «ci ha penalizzato l’astensionismo». Oggi niente, neanche questo, come se il non voto fosse messo nel conto, variabile stimata al ribasso sempre e comunque, da accettare come dato naturale e non da contrastare come il killer numero uno della sostanza della democrazia. Il presidente Mattarella, nel suo intervento alla Settimana sociale dei cattolici in Italia a Trieste, il 3 luglio scorso, ha giustamente inviato a non arrendersi, “pragmaticamente”, al crescere di un assenteismo dei cittadini dai temi della “cosa pubblica”, perché non può esistere una democrazia senza il consistente esercizio del ruolo degli elettori e ha spronato a battersi perché non vi siano “analfabeti di democrazia”. Se però i non votanti, gli analfabeti aumentano in questa “Italia di sonnambuli” (definizione dell’ultimo rapporto Censis), come si può provare a invertire la rotta? Dai giornali non ho capito cos’abbiano risposto i 1000 delegati presenti alla Settimana sociale. Intanto io, nel mio piccolo, mi sono fatto questa idea: ci vorrebbero innanzitutto un albero e due parole.
La democrazia è nata in piazza
Secondo una filosofa francese, Joelle Zask, che da anni si occupa di democrazia partecipativa, di luoghi, di città, la democrazia è nata in piazza, all’ombra dei platani. La piazza, in origine, nella Grecia antica, non era solo luogo di discussioni in pubblico, ma anche luogo di incontri e di commerci. Piazza ha un principio di comunanza (per etimo? per tradizione? per analogia?) con la parola platano (da plautus, che in latino significa “largo”, da cui sia piazza che platano, cioè “pianta dalle foglie larghe”) e questa comune matrice spinge Zask a immaginare la nascita della democrazia come indissolubile intreccio tra persone, luoghi, natura. Noi oggi viviamo chiusi nelle nostre case, che ricordano tanto la tana di cui scrive Kafka in un suo racconto, e quando usciamo è solo per correre in uffici-loculi ad aria condizionata e nei centri commerciali, i nuovi templi del consumo, e per fare a un certo punto dell’anno una settimana di viaggio all inclusive. È un’impostazione sbagliata, la parte sana del nostro inconscio lo sa e ci manda messaggi sotto forma di disturbi neurovegetativi, ma non riusciamo ad abbandonarla. Ci farebbe bene, innanzitutto per la nostra salute mentale, tornare in piazza, piantarci un bel platano, costruire due o tre grandi tavoli, e vivere il colloquio e lo scambio a tutto tondo: dialettica e tempo delle feste, pensiero e cerimonie religiose, decisioni collettive e momenti teatrali, in un dinamismo sensuale-mistico-politico. Mi torna in mente una poesia del triestino Umberto Saba (autore citato anche da papa Francesco nell’omelia conclusiva della Settimana sociale) dedicata a Milano e alla sua piazza principale: «Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio villeggiatura. Mi riposo in Piazza del Duomo.
Invece di stelle ogni sera si accendono parole. Nulla riposa della vita come la vita». In piazza, sotto il platano si accenderanno anche per noi parole. In particolare due, antiche come le montagne, fresche come le sorgenti, tutte e due declinate al plurale: persone e comunità.
L’io e il tu, un fuoco contro la notte
Persone. Restiamo analfabeti della politica fin quando non torniamo a sentirci persone, cioè esseri-con, esseri-in-relazione. Non possiamo mai immaginarci, in nessun istante, come isolati dagli altri. Se ci percepissimo così, torceremmo la nostra libertà fino alla sua negazione. La radice della parola libertà – sia nella sua versione indoeuropea (da cui derivano il termine greco eleutheria e il termine latino libertas) sia in quella sanscrita (cui fanno capo l’inglese freedom e il tedesco Freiheit) – esprime potenza connettiva e aggregante. Da essa parte una doppia catena: quella dell’amore (lieben, lief, love ma forse anche libet e libido) e quella dell’affetto e dell’amicizia (friend, Freund). La libertà, fin dalla notte dei tempi, non è stata vista unicamente come l’assenza di impedimenti, la sottrazione a una costrizione, la fuoriuscita da un’oppressione. Il movimento negativo, che pure è necessario e che porta a sciogliere, distinguere, dividere (anche cose che sembrano andare insieme) e perfino a distruggere (anche cose consolanti, come gli ideali e i valori trasmessi dai nostri padri), prepara un di più di espansione e di partecipazione all’esistenza. Siamo fatti per fiorire, per esprimere tutta la potenza del nostro essere.
Comunità. La mia libertà non finisce dove inizia la tua (come solitamente si dice) ma, al contrario, comincia dove comincia la tua. Le comunità sono esattamente i luoghi che interrompono la chiusura del soggetto esponendolo al contagio dell’alterità. Gli altri, all’inizio, fanno sempre paura. Hanno un corpo, un sudore, una forma non sempre bella, una lingua che talora taglia più di una spada. Perché non tenerli lontano? Anche qui la semantica può dare una mano. Il termine latino communitas significa «dono» e anche «obbligo» nei confronti di un altro. La comunità è il munus, il regalo che i singoli si scambiano reciprocamente e nello stesso tempo il debito che ciascuno ha nei confronti degli altri.
Questo dono-obbligo è quel che si trova nel lavoro condiviso, nei gesti semplici di amicizia, nelle conversazioni dal contenuto forse irrisorio, ma in cui comunque ci si mette faccia a faccia. È quel che sussiste e riemerge nelle situazioni estreme: quando qualcuno sta per morire di cancro o di vecchiaia, quando qualcuno, per l’età o per un incidente, è ridotto all’ebetismo, o si ritrova attanagliato dall’angoscia, o quando una madre guarda per la prima volta il bimbo che è appena uscito da lei. Di queste esperienze non si può assolutamente fare a meno. Senza lo scambio, senza le relazioni, senza il via vai degli appuntamenti, noi non avremmo linfa. L’albero resterebbe spoglio, legno secco. Mi sovviene un’altra poesia, in questo caso dall’altra parte dell’oceano, il Samba delle benedizioni del brasiliano Vinícius de Moraes dove si legge: «La vita è l’arte dell’incontro, anche se molti scontri ci sono nella vita».
Nell’epoca dell’astensione, per battere l’analfabetismo di democrazia, potremmo provare questo modo di stare al mondo: l’io che scende in piazza e incontra il tu, e l’io e il tu che si sfregano come legni e fanno un fuoco contro la notte. Una tale impostazione potrebbe pungolare la politique politicienne, la politica dei professionisti, quella che presenta le liste ed elegge i deputati. “Persone e Comunità” potrebbe contrastare le tendenze che oggi sembrano vincenti: la verticalizzazione-personalizzazione del potere esecutivo, la disarticolazione dell’unità e della solidarietà sociale e nazionaldemocratica. E le conseguenti lotte, mediazioni, sconfitte, successi – si spera pure in qualche successo – diventerebbero le necessarie e molteplici «variazioni» sul principale desiderio che sentiamo vibrare nel nostro cuore la sera quando spegniamo la luce: ritrovarsi all’indomani in piazza, all’ombra del platano, vivendo finalmente una fraternità senza terrore.
Giovanni Colombo
già dirigente dell’Azione Cattolica ambrosiana,
presidente nazionale della Rosa Bianca
e consigliere comunale di Milano,
lavora all’autorità di regolazione
per energia reti e ambiente