Gambia
Quando i confini li sceglie una potenza coloniale
Il Gambia, il più piccolo fra gli Stati dell’Africa Occidentale, ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1965. Sembra una lancia conficcata nel petto del Senegal, con circa 2,64 milioni di abitanti. Condivide con la quasi totalità degli Stati che abbiamo esplorato precedentemente una dittatura recente e un tortuoso percorso verso la democrazia, non ancora concluso. Questo considerando che il cammino democratico non è mai concluso in nessuna parte del mondo. Per il Gambia questo sunto è più vero che altrove, in quanto la divisione dei confini, scelta arbitrariamente dai paesi europei occidentali, ha diviso villaggi, interrotto vie di comunicazione (in Senegal si parla francese e in Gambia inglese). Tutto ciò andando non solo contro la volontà degli abitanti nativi della zona, ma anche contro la natura stessa, che aveva fatto del fiume chiamato proprio Gambia, uno dei corsi più navigabili dell’Africa. Doveva essere veicolo di merci e persone liberamente in quell’area, invece è diventato simbolo di divisione e il Gambia lo usa solo per i commerci interni. Ma il mercante inglese di schiavi, Francis Moore, ha lasciato alcune riflessioni sul ruolo nefasto dell’intervento degli occidentali nel continente africano ben prima dell’apice dell’epoca colonialistica. Già nelle prime decadi del Settecento, la tratta degli schiavi aveva scavato un solco nella storia collettiva e individuale degli afro-discendenti. Ecco cosa scriveva Moore: «Da quando si fa ricorso a questa tratta degli schiavi, tutte le pene si sono tramutate in schiavitù; essendoci un vantaggio a fronte di tali condanne, perseguono i crimini con grande determinazione, per ottenere il beneficio di vendere il criminale».
Luci e ombre della nascente democrazia gambiana
Com’era prevedibile, queste scelte dei colonialisti hanno portato all’esasperazione di conflitti locali che potevano essere risolti, e, di conseguenza, all’istituzione di governi autocrati. Per esempio, Yahya Jammeh, proveniente dall’esercito con il grado di colonello, è stato dittatore del Gambia dal 1994 al 2017, dopo essere salito al potere con un colpo di Stato da lui orchestrato. Pur essendo stato destituito con delle regolari elezioni, esse si sono svolte in un clima di violenza e oppressione. Inoltre, nessuna giustizia è stata fatta per i suoi comprovati crimini contro i cittadini del Gambia (dagli stupri alle torture, alle detenzioni arbitrarie), dal momento che lui è in esilio, ospite dal presidente della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, un altro dittatore.
Il nuovo presidente, Adama Barrow, ha dovuto giurare a Dakar, in Senegal, presso l’ambasciata gambiana, anziché nella capitale del suo Paese, Banjul. La vittoria di Barrow per essere riconosciuta tale ha richiesto un intervento dell’ECOWAS (accordo fra 12 Stati dell’Africa Occidentale) per ristabilire la tranquillità dopo una crisi costituzionale. Eppure le elezioni, a cavallo fra il dicembre 2016 e il gennaio 2017, sono state un evento politico di grande importanza per il Gambia: hanno sancito il passaggio da repubblica presidenziale islamica a repubblica presidenziale tout court, sancendo – almeno sulla carta – il principio, se non della laicità dello Stato, almeno della non teocrazia. Questo è solo un primo passo. Basti pensare che la riforma costituzionale che avrebbe posto un limite ai mandati presidenziali è stata bocciata. Ciò vuol dire che un presidente che voglia governare «un miliardo di anni» (parole dello stesso Jammeh) potrebbe tecnicamente farlo, se non dovesse fare i conti con la propria morte naturale. Solo Ousman Sonko, ex comandante della guardia presidenziale gambiana, ex ispettore generale della polizia ed ex ministro degli Interni, è stato processato recentemente per crimini contro l’umanità, ma non in Gambia o in Senegal, bensì a Bellinzona, nel Canton Ticino svizzero, poiché non era possibile sperare in un processo simile nel luogo di origine. La sua vicenda si sta trascinando da oltre due anni, tra condanne mai realmente messe in atto, proteste violente dei civili (pro o contro le sentenze) e autorizzazioni a candidarsi alle elezioni, come se nulla fosse. In sostanza, la democrazia appena nata gode già di una salute pessima, fatto reso ancora più palese dalla vicinanza politica fra il presidente Barrow e il leader turco Erdoğan, il cui governo si sta spostando sempre più verso posizioni di estrema destra.
Lotta aperta sul tema delle mutilazioni genitali femminili
Presidenti con tendenze autocrate e democrazie non funzionanti si ripercuotono, naturalmente, sulla società civile e sui diritti umani degli individui. In particolare, a pagarne le conseguenze più gravi sono le donne, che non hanno ricevuto molte mimose quest’anno nella giornata dell’8 marzo. Proprio in questo marzo 2024, infatti, è appena stato approvato agevolmente, già in seconda lettura, con 42 deputati favorevoli, 4 contrari e un astenuto, un disegno di legge per la depenalizzazione delle MGF (mutilazioni genitali femminili), che sono un reato in Gambia dal 2015. Il movimento per invertire il divieto ha preso slancio solo a otto anni dall’introduzione della legge, poiché solo l’anno scorso si sono viste le prime carcerazioni. Per quello che al nostro occhio può sembrare un paradosso, la maggior parte delle carcerate per aver praticato MGF sono donne. Qualora la legge dovesse essere approvata, creerebbe un pericoloso precedente in Africa e nel mondo: il Gambia sarebbe il primo paese in assoluto a fare marcia indietro sull’escissione degli organi genitali femminili. Il 73% delle donne gambiane fra i 15 e i 49 anni ne è stato vittima, nonché una larga platea di bambine sotto i cinque anni. Eppure, vi è ancora chi sostiene che vietare la mutilazione vada contro la libertà di cultura e di religione.
Crescita e problemi del calcio gambiano
Analogamente a quanto accaduto in Sudafrica al mondiale di rugby del 1995, anche in Gambia una speranza potrebbe venire dallo sport, dal calcio in particolare, dopo la prima qualificazione degli Scorpions alla Coppa delle Nazioni Africane (conosciuta con l’acronimo francese di CAN), nel 2021. Tuttavia, secondo quanto riportato in un articolo lo scorso gennaio su africavista.it: «La tensione tra i giocatori e la federazione di calcio gambiana è altissima (…).
I giocatori, infatti, hanno boicottato diverse sessioni di allenamento chiedendo un bonus per la qualificazione alla loro seconda Coppa d’Africa, dopo decenni in cui non erano riusciti a qualificarsi».
La partecipazione alla CAN 2024, infatti, è iniziata in salita per gli Scorpions: erano appena decollati per la Costa d’Avorio, quando il loro velivolo è dovuto tornare quasi subito a Banjul, per un calo di pressione dell’ossigeno nella cabina. Su questo incidente circolano molte versioni, dalle più catastrofiche alle più accomodanti: rimane la rabbia dei tifosi e dei calciatori verso la federazione, che quantomeno dovrebbe garantire la sicurezza dei propri atleti.
Questa storia può essere intesa come metafora per il futuro del Gambia intero?
Cecilia Alfier
laureata in scienze storiche, aspirante giornalista,
giocatrice di scacchi da 19 anni e di bocce paralimpiche da 5,
vive e lavora a Settimo Torinese (To),
componente la redazione di madrugada