Test genetici: tra privacy e diritto di non sapere

di Bruni Alessandro

I test genetici sono uno strumento di clinica medica che permette l’utilizzo di informazioni riguardanti il genoma per scopi diagnostici, predittivi e farmacologici. Sebbene nella maggior parte dei casi siano impiegati da professionisti per fini medici, è oggi possibile ordinare a domicilio un kit per diversi tipi di test e riceverne i risultati senza che alcun medico sia coinvolto nel processo. È quindi evidente che i test genetici hanno un ruolo sociale fondamentalmente più ampio dell’analisi delle radici genetiche di alcune patologie.
Un primo problema dei test genetici è dato dalle reazioni psicologiche e comportamentali di contesto socioeconomico. Permettere, per esempio, a un datore di lavoro l’accesso a dati relativi alla condizione di salute dei suoi impiegati, potrebbe facilmente comportare l’insorgere di discriminazioni nei confronti di individui con predisposizione ad alcune patologie (per esempio, neurodegenerative) prima ancora che la persona manifesti i sintomi.
Un altro problema dibattuto è costituito dal diritto di conoscere e dal diritto di non sapere. La scelta di rendere pubblici i test genetici, seppure oggi sia sul piano individuale una forma di outing liberatorio (si vedano le molte star che rendono pubblica la loro condizione genetica di predisposizione al cancro al seno), hanno effetto di ricaduta sulla compagine familiare, con possibile stress e stigma sociale negativo che viola il personale diritto alla privacy.
Se una donna rende pubblico il suo test genetico che la vede predisposta al cancro al seno deve anche considerare quale sia l’effetto che determinerà nelle proprie sorelle e nella madre.
È chiaro che il solo fatto di avere un cancro al seno comporta il sospetto di trasmissione genetica che già allerta sorelle e madre. Ma in questo caso è la certezza della malattia che viene divulgata (e quindi il diritto delle donne di famiglia di sapere) e non il risultato di un test genetico predittivo in assenza di malattia (che deve salvaguardare la sua privacy o anche il suo legittimo diritto a non voler sapere). La differenza tra le due condizioni prospettate sul piano etico è dunque molto grande, ma sul piano pratico molto sottile.
La scelta di non voler sapere è una componente essenziale dell’autonomia individuale, in quanto protegge l’integrità psicologica dei pazienti, permettendo che essi non vengano danneggiati dalle informazioni risultanti dai test genetici e che quindi si rispetti in qualche modo il principio di beneficenza. Secondo alcuni, tuttavia, il diritto di non sapere misconosce l’importanza della relazionalità, intesa come interdipendenza dell’individuo rispetto ad altri individui, nonché della responsabilità che l’individuo ha nei confronti di coloro che sono immediatamente legati a lui, da un punto di vista genetico, e che subiscono quindi gli effetti negativi della sua autodeterminazione.
Infine, non bisogna dimenticare che il sistema sanitario funziona per protocolli che la legge sulla bioetica norma, salvaguardando il diritto di scelta individuale, tanto che alcune analisi sono facoltative e quindi soggette al consenso individuale e alla segretezza. Nel sistema sanitario esistono però due possibili falle. La prima è insita nel sistema di ottimizzazione burocratica a schede di compendio (si pensi all’FSE) e dal costume di sanitari e pazienti di non entrare troppo nel merito tra test necessari e test facoltativi (considerati come postille burocratiche a cui non dare troppo peso). Questi ultimi sono spesso determinati da esigenze di ricerca o di raccolta di dati statistici che riguardano il futuro sociosanitario e non la diagnosi e la terapia del singolo individuo. Altri esempi sono i test genetici facoltativi sui genitori di bambini Dawn o con spettro autistico: sono indagini che hanno debole interesse terapeutico diretto sul bambino, ma interesse o di ricerca o di valutazione statistica sullo stato sanitario collettivo nazionale che giustamente richiedono uno specifico consenso.
La seconda possibile falla è nella sicurezza di non divulgazione dei dati sensibili, fatto che risulta problematico sia per la gestione informatica dei dati (una banca dati notevole con un accesso legittimo da parte di molte persone) e sia per l’alto numero di addetti a cui è affidata la confidenzialità e la sicurezza stessa dei dati (il complesso degli operatori sanitari o del personale di ditte commerciali che vendono test genetici in kit).
Il problema bioetico dei test genetici, dunque, potrebbe verosimilmente risolversi nell’adozione di un comunitarismo moderato in cui la possibilità di scelta dei singoli non sia completamente sacrificabile in vista del bene comune, ma neanche assolutizzata a valore preminente. L’impegno che l’individuo implicitamente o esplicitamente prende, creando legami di vario genere con altri individui (relazioni sentimentali, matrimonio, decisione di fare figli), legittimerebbe immediatamente un imperativo di responsabilità basato sia su diritti individuali che su doveri collettivi in un mix di responsabilità sia istituzionali che individuali precipui della nostra appartenenza sociale.
Sul piano bioetico i test genetici, di valenza clinica o commerciale, finiranno inevitabilmente con lo scontrarsi con la salvaguardia dell’immagine che l’individuo ha di sé e che trasmette all’interno della società. Di qui la necessità futura di una maggiore attenzione e consapevolezza del problema.

Alessandro Bruni

Alessandro Bruni

Componente la redazione di madrugada e curatore del blog madrugada.blogs.com