Lungo il Rio, per restare senza parole
«Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più
poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro
voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa.
Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza
culturale che la distingue, dove risplende in forme
tanto varie la bellezza umana.
Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente
l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita
traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste.
Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di
incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare
alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici».
(esortazione apostolica postsinodale di Papa Francesco)
Gli scienziati continuano a indagare preoccupati gli effetti della deforestazione nelle regioni dell’Amazzonia e non solo, le ricadute sull’ambiente, sull’ecosistema. Violare la foresta amazzonica e altri grandi polmoni tropicali crea danni devastanti non solo al clima locale ma all’intero pianeta. Le grandi estensioni verdi sono fondamentali per il raffreddamento del territorio, l’ossigenazione per preservare la biodiversità. L’impatto della deforestazione riguarda interi continenti, visto che il clima si sta surriscaldando ovunque. Gli scienziati indagano, scrivono, denunciano, raccolgono dati, fanno proiezioni, specializzano sempre più le ricerche scientifiche e ambientali che sono fondamentali; in qualche modo confermano e rafforzano quanto viene ribadito e denunciato da decenni dalle popolazioni indigene, ciò che tenacemente narrano, testimoniano e denunciano al mondo secondo la loro cultura e tradizione.
L’urlo di Nemonte, il canto solitario di Eder
C’è l’urlo di Nemonte, una giovane donna di 33 anni che appartiene alla tribù dei waorani, una popolazione che vive nella foresta amazzonica equadoregna; non ha fatto studi accademici, ma ha ascoltato, dai racconti dei vecchi del villaggio, le storie dei waorani, che in passato erano guerrieri e hanno sempre combattuto per conservare intatta la propria terra, dove vivono liberi da molte generazioni. Assieme al suo popolo ha urlato: «Basta!». Ha cominciato a fare foto, video, a scrivere lettere a tutti i nove Paesi in cui si divide la foresta amazzonica supplicando: «Se ci uniamo, tutti e tutte insieme potremo proteggere l’Amazzonia, il nostro pianeta e il clima per le generazioni future». È stata contagiosa. Alla fine, Nemonte ci è riuscita! Ha vinto la sua lotta e ha salvato 202.000 ettari di foresta. C’è il canto solitario di Eder Rodrigues do Nascimento che porta avanti una battaglia personale in difesa della sua terra: con la sua fisarmonica e la sua canoa percorre le anse del fiume Jurua, uno degli affluenti del Rio delle Amazzoni, intonando un antico canto con il quale parla, conforta e chiede scusa agli alberi della foresta, un canto primordiale dolcissimo, ritmato dai colpi di pagaia. E agli abitanti dei villaggi insegna: «La natura dipende da te, lasciala vivere. Ti ringrazierà il mondo intero, con grande piacere», mentre scende lento il Rio portato dalla corrente. Infinite sono le storie, di persone, gruppi, comitati, delegazioni, popoli che provano a frapporsi, quasi come uno scudo umano, tra la devastazione e la propria terra, tra lo spirito di distruzione esasperata e l’amore per la propria casa comune: la foresta e la natura. Le loro parole sono concrete, immediate, a taluni possono sembrare perfino ingenue, ovvie, ma quelle parole, dalla sintassi semplice e lineare, raccontano la loro vita, il loro concreto agire. Quello che conta e dà significato al loro narrare è l’esperienza profonda delle cose che raccontano con un primato dell’oralità antico. Non sono abituati ad argomentare, trattare, non c’è posto per un pensiero ipotetico, non c’è spazio per il forse, per il se, a volte non c’è nemmeno tempo, sono abituati e costretti ad agire per sopravvivere in prima persona, con gli altri.
Macondo è tornata in Amazzonia
Sono simili a queste le persone, le famiglie e i gruppi che Macondo è tornata a incontrare in Amazzonia a Santarém, lungo il rio Tapajós dopo anni di attesa: la malattia di Giuseppe prima e il COVID poi, hanno obbligato il procrastinare dell’incontro. Abbiamo incontrato e ci siamo confrontati anche con i giovani del Movimento Tapajós Vivo, un comitato di lotta per la difesa del fiume. Nella loro sede, nella parete alle loro spalle hanno appeso un vecchio manifesto umido con Che Guevara che mi ha commosso. «Quando si tratta delle minacce che l’Amazzonia deve affrontare – ci raccontano – spesso ci si concentra esclusivamente sulla deforestazione e si dimentica che anche il fiume e i suoi affluenti – di gran lunga il più grande sistema fluviale del mondo – sono a rischio reale». In effetti se tutte le dighe idroelettriche programmate nel Rio Tapajós (almeno 40) venissero costruite, le conseguenze ambientali e sociali sarebbero disastrose. Si stima che circa 2.000 kmq di territori indigeni sarebbero inondati da bacini idrici. Le dighe altererebbero il flusso naturale dell’acqua del fiume, la profondità, la temperatura, la sedimentazione e i livelli di ossigeno, distruggerebbero i delicati ecosistemi e minaccerebbero la ricchezza della fauna selvatica. Le rapide e le cascate che caratterizzano il Tapajós verrebbero distrutte, la pesca scomparirebbe. Questi giovani hanno una programmazione serrata: si dividono i compiti, le fatiche e le zone del Rio da visitare, prendono il barco e vanno tre o quattro giorni nei diversi villaggi, dove organizzano gruppi di coscientizzazione, educazione ambientale, scuola di leaderanza, ospitati dalle comunità locali. Fanno educazione di base e passano giorni a risalire il fiume, a cambiare barco, canoa, a percorre sentieri nella foresta… perché diversamente da così non c’è modo di spostarsi. Il viaggio chiede tempo, ma la bellezza del luogo educa alla contemplazione. Hanno un progetto sperimentale per l’uso di pannelli solari, un buon pretesto per spiegare ai curiosi a che cosa servono e qual è il vero problema: quello della sostenibilità ambientale. Hanno una “garra” da fare invidia, una grinta e una determinazione sostenute dalla speranza e, soprattutto, sono giovani, appartengono alla generazione che sa ancora sognare e non sente la fatica. Sorridono sempre e hanno modi gentili, sono emozionati nell’incontrarci, io, invece, ho il nodo alla gola quando, giunto il momento di andare, dopo un lungo abbraccio dico loro, riconoscente, un semplice grazie.
Raccontare sfide e speranze
Una sera senza luna, con una macchina da battaglia con alla guida spericolata l’indomito Edilberto, siamo andati a incontrare delle famiglie che hanno occupato della terra abbandonata costruendo delle baracche e una strada, ora vorrebbero fare un asilo per crescere assieme i numerosi bambini che giocano tra loro e con i gatti. Vogliono e sono una comunità, condividono momenti di formazione, di cittadinanza attiva, si accordano sulle azioni di supporto al loro progetto, vivono una reale sussidiarietà tra famiglie, raccolgono risorse per pagare gli avvocati con piccole attività di autofinanziamento, organizzano matrimoni e battesimi comunitari. Sanno fare festa insieme, con poco. Sotto una pergola, seduti in ordine sparso, discutono, ci sorridono, non capiscono cosa facciamo lì, ma sono onorati della nostra presenza perché arriviamo da lontano e abbiamo fatto strada per incontrali e siamo interessati a loro. Accoglienti, ci offrono quello che hanno: succo e arachidi, ci puliscono lo sgabello e loro restano in piedi, temono che inciampiamo nel buio e ci offrono il braccio. È lo stesso per un’altra piccola comunità di famiglie vicino all’aeroporto, sta portando avanti la stessa battaglia, ma sono più sfiniti e sfiduciati, qualcuno beve, i giovani sono incollati a un televisore dentro una baracca. La multinazionale che gestisce l’aeroporto vuole allargarsi e pretende che quei terreni vengano liberati e messi a disposizione per un deposito merci per l’infrastruttura. È una guerra tra Davide e Golia, Edilberto accompagna, ascolta, è molto preoccupato… la vede dura ma ha sempre parole di speranza, di incoraggiamento… de luta! Bacia i bambini, si complimenta con le giovani nonne; loro non hanno né succo né arachidi, mi mettono tra le braccia un neonato e sono esaudita. Incontrando queste persone, ascoltando le loro storie, ho fatto a tutti una promessa: racconterò di voi, delle vostre speranze, sfide, fatiche, passioni e rischi, porterò la vostra voce in un mondo che fa tanto rumore, parla tanto ma non fa abbastanza e sta perdendo il coraggio… ma può ancora innamorarsi. Mi è balenata l’idea di chiedere loro di scrivere qualcosa per raccontare la loro esperienza nelle pagine di madrugada, magari provando a fare un monografico con il placet della redazione, creando così una stretta connessione tra la vita e i contatti dell’associazione e la nostra splendida rivista. Ho cercato di spiegare cos’è Macondo e che cosa l’appassiona, ho raccontato della rivista che raccoglie riflessioni e punti di vista di tante persone amiche, molto disponibili e competenti. Loro sono rimasti lusingati ma perplessi, alcuni di loro non hanno mai scritto per nessuno, qualcuno non ha proprio mai scritto… Edilberto si offre di aiutarli a raccogliere pensieri e parole collettive… umilmente, e un po’ divertiti per la stranezza della mia richiesta, promettono di provare. Sono stati fedeli alla parola data e io sono orgogliosa del loro sforzo! È sicuramente un monografico diverso: sono pagine che danno spazio ad amici lontani di Macondo che hanno storie vere e uniche da raccontare. Alle giornaliste che parlano alla radio, agli attivisti e alle persone semplici delle comunità incontrate. Magari non siamo abituati a questi testi, abbiamo confidenza con scritture molto più complesse e con argomentazioni ancorate a bibliografie inespugnabili. D’altronde non abbiamo spesso la fortuna di avere un filo diretto con quest’altra parte del mondo, con le popolazioni indigene del Tapajós e del rio delle Amazzoni, davvero molto distanti da noi. Ma se Macondo è nata per favorire l’incontro e lo scambio tra i popoli questa è un’ottima occasione per sperimentarci, per metterci in ascolto, senza giudizi, sapendo che stiamo leggendo storie della gente del Rio, sono più bravi a fare che a scrivere. Se lo fanno, lo fanno col cuore e lo fanno per noi. Loro ci aspettano da tanti punti di vista… e poi se qualcuno vorrà andare a casa loro, potrà scendere con la canoa lungo il grande fiume, vedere il boto, il delfino rosa, giocare tra le onde, potrà salutare e ringraziare il sole che va a dormire, sentire il profondo silenzio che anticipa vibrante l’aurora e godere del colore e dei profumi della foresta… il loro mondo parla così… Saremo noi allora a restare senza parole!
Monica Lazzaretto
presidente di Macondo, vive a Tramonte (Pd), lavora a Mira (Ve), come responsabile del centro studi della Cooperativa Olivotti scs