La risacca di via Pavlov

di Monini Francesco

Il sacrificio degli agnelli
L’altra mattina (una mattina qualsiasi, tanto la guerra continuerà per tutto il 2024) sono le 7 e sento alla radio che l’ospedale di Gaza City, più volte bombardato dagli aerei israeliani, è completamente fuori uso. Niente elettricità, niente acqua, niente di niente. L’ospedale non c’è più. Nella nursery muoiono anche i neonati. Muoiono senza scampo, in quello che una volta era il reparto di terapia intensiva. L’invasione israeliana continua.
Oggi al telegiornale sento la conta dei morti nella Striscia: oltre 24.000 vittime, 10.000 (uno in più, uno in meno, a chi importa qualcosa?) bambini. In quello che era un ospedale, una fossa comune accoglie oltre 170 ricoverati.
Allora mi sono chiesto, con tutta l’ingenuità che mi rimane: perché la pace non arriva? Davanti alla strage, al sacrificio degli agnelli, qualsiasi persona di qualsiasi bandiera vorrebbe che le armi tacessero, che si spegnesse il rombo degli aerei, che finalmente si levasse il fumo per soccorrere gli inermi e per seppellire i morti. Perché allora la pace, che appare la cosa più semplice, più naturale, più ragionevole del mondo, non arriva mai? Tutte le notti gli agnelli piangono, tendete le orecchie e sentirete i loro strilli. Gli agnelli muoiono, ma la guerra è da sempre la nostra compagna. È la guerra – così ci insegnano – a essere normale, semplice, naturale, non la pace. Che la guerra, non la pace, corrisponde alla nostra umana natura. Che l’uomo è un lupo per gli altri uomini. E, ingenui come siamo, non abbiamo ancora imparato l’antica massima di Carl von Clausewitz, che «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»?

Anche se la guerra è in minoranza
Eppure sono in tanti, in tantissimi, a scendere in piazza in tutto il mondo per chiedere il cessate il fuoco, la tregua, la pace. Pochi giorni fa a Londra c’è stata una manifestazione oceanica. Talmente gigantesca che, se vi è sfuggita, merita di essere vista. Questo popolo ingenuo che vuole la pace, in Palestina come in Ucraina, manifesta tutti i giorni: in Europa, negli Stati Uniti, in Israele. Sfila per le strade delle metropoli come delle piccole città di provincia.
I pacifisti non godono di buona stampa. Se va bene, sono trattati come sognatori e utopisti, spesso come piantagrane, come agitatori, come terroristi tout court. A pochi viene in mente che la marea umana che si mobilita (inutilmente) per la pace rappresenta la grande maggioranza del genere umano. La natura umana corrisponde alla pace, non alla guerra.
Eppure, la pace è irrisa. La guerra sono in pochi a volerla e a deciderla. La guerra è in minoranza, eppure insanguina il mondo.
La pace non arriva mai perché i Capi di Stato non ne hanno nessuna intenzione. Perché un bel po’ di generali dovrebbe andare in pensione. Perché, se si arriva alla pace, la carriera politica di Netanyahu e Zelensky, ma anche di Putin e Biden, ma anche dei capi e sottocapi di Hamas sarebbe finita. Addio potere. E che fine farebbero i poveri costruttori e commercianti di armi? Magari il problema è più generale. Il problema è il potere. Per far prevalere la maggioranza e la pace, forse bisognerebbe far tabula rasa, abolire gli Stati e i Capi di Stato. Come stanno facendo le libere città curde.
Ecco, ho cominciato da ingenuo e ho finito come anarchico.

Il rumore della risacca
Ora invece è notte fonda. Sfoglio sul pc i pdf dei vecchi numeri di madrugada. E trovo per caso una mia cosa scritta nel 2002, 22 anni fa, sul numero 50 di questa gloriosa rivista. Leggo e finalmente capisco perché quelle grida non mi fanno dormire (agnelli israeliani, palestinesi, russi, ucraini: ma gli agnelli non hanno più nazionalità), capisco che quelle grida mi inseguono da tanto tempo.
Scrivevo 22 anni fa: «A Leningrado (oggi tornata San Pietroburgo), in via Pavlov, in una casa rossa dove ora c’è un ospedale, c’era un centro di smistamento in cui venivano portati i bambini dopo l’arresto dei genitori. Lì venivano ammassati per essere ripartiti e quindi deportati. Nel centro piangevano tutti. Per la paura piangevano piano, sotto il cuscino; ma per quanto piano facessero, nell’aria si creò una specie di tensione, un rumore simile a quello del mare. Così andò la faccenda delle lacrime dei bambini, al cui prezzo, secondo Dostoevskij, non si può comprare nemmeno la felicità del mondo intero: le lacrime diventarono così tante che i bambini facevano un rumore simile a quello della risacca del mare».

Una pubblicità da abolire
I bambini non muoiono solo sotto le bombe. Muoiono di fame. Ero ancora un bambino e sentivo la storia dei “poveri negretti”. Mangia la minestra, ci dicevano, mangiala tutta, pensa che in Africa i negretti muoiono di fame… Adesso non li chiamano più negretti, non è politicamente corretto. Che bello se bastasse cambiare nome per cambiare le cose. Invece no, i bambini africani continuano a morire di fame. A milioni. Nonostante i periodici servizi sulla carestia di turno. Nonostante la FAO. Nonostante alcune grandi e meritevoli Ong impegnate sul campo.
Proprio mentre scrivo, a Davos i Grandi della Terra (finanzieri, politici, industriali, banchieri) stanno discutendo di tassi di interesse, di crisi climatica, di intelligenza artificiale, ma la fame nel mondo è un argomento tabù. Non incide sull’economia. Non pesa sulla geopolitica. Eppure da anni sento lo stesso ritornello: «Basterebbe stanziare lo 0,001% del Pil dei Paesi ricchi per sconfiggere la fame».
Per fortuna ci sono le Ong. A cui però vorrei chiedere di smettere di mandare in onda fotografie e video di “negretti” denutriti e morenti nelle loro pubblicità televisive per raccogliere fondi. I bambini africani hanno diritto alla privacy, esattamente come i nostri bambini ben pasciuti, di cui per legge nascondiamo il volto.
Basta, è sbagliato far leva sulla pietà. Le donazioni arriveranno lo stesso.

Vivere della politica e cavarsela sempre
Cominciamo da Max Weber: «Ci sono due modi di fare il politico: vivendo “per” la politica oppure vivendo “della” politica». I secondi costituiscono la cosiddetta classe politica, la nomenclatura. Enrico Berlinguer era molto pessimista: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela».
Nomenklatura nell’ex Unione Sovietica erano gli alti papaveri del Politburo e i grandi burocrati, una razza inamovibile e fautrice di un immobilismo formale e sostanziale. Ma si sa, il vocabolo ha avuto successo anche in Germania (“Nomenklatur”), e naturalmente in Italia: “nomenclatura”.
L’Italia, dal secondo dopoguerra fino al crollo del Muro e al terremoto di Mani pulite, ha conosciuto due grandi tradizioni politiche, due grandi partiti e due nomenclature. Entrambi, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, hanno allevato e istruito una propria solida nomenclatura. Che ha anche altri nomi: apparato, classe dirigente. Non sto parlando dei super leader ma del sottobosco, l’esercito dei funzionari alla linea e dei politici di professione. Ne servivano parecchi per “presidiare” tutto il territorio, a cominciare dalle città e dalle regioni dove il partito poteva contare su una maggioranza bulgara: la DC in Veneto, il PCI in Emilia-Romagna.
Negli anni Novanta è cambiato il mondo, i vecchi partiti sono esplosi in mille pezzi, ma (incredibilmente?) la nomenclatura è riuscita a salvare il posto, lo stipendio, il potere. Non si sono salvati tutti, qualcuno si è dovuto ritirare a vita privata, ma i più abili, i più scaltri, i più spericolati si sono riciclati nei nuovi partiti, si sono fusi con le nuove figure emergenti, presto diventate anch’esse nomenclatura.
I casi di intelligente galleggiamento nel mare agitato della Prima e Seconda Repubblica si sprecano. Per citare un caso “da manuale”, uno fra i tanti, farei il nome del mio concittadino Dario Franceschini, uno “né carne né pesce”, un politico per tutte le stagioni, un uomo che è stato tutto, attraversando (indenne) molti correnti e svariati partiti. Alla fine fu ministro, ripetutamente, della Cultura.
Senza far disastri ma senza lasciar traccia. Oggi abbiamo di peggio, il ministro attuale, Gennaro Sangiuliano, di cui scrivo più sotto.
Giorgia Meloni vuole fortissimamente il premierato e forse ci riuscirà, esaudendo il sogno infranto di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi e inaugurando finalmente la Terza Repubblica. Cambierà tutto? Non credo, la nomenclatura, maestra di trasformismo, può sopravvivere anche a una rivoluzione.

L’ultimo miracolo italiano
San Giuliano chi? Vuoi dire Sangiuliano? Il ministro della cultura? Il cacciaballe? Quello che Dante sarebbe il campione della cultura di destra? Proprio lui, che guarda a caso è nato a Napoli e di nome fa Gennaro. Ma San Giuliano non si limita a sciogliere un’ampolla di sangue secco, lui lavora in grande. Il suo ultimo miracolo ci ha lasciati “commossi e attoniti”. Un uomo, un uomo solo, è riuscito a salvare Venezia; quella Venezia che credevamo moribonda, afflitta da un male incurabile, assediata dalle maree.
Ora, grazie a lui, Venezia non è più in pericolo. Ecco le parole di San Giuliano: «Il Comitato del Patrimonio Mondiale riunito a Riad in Arabia Saudita, per la sua 45esima sessione, ha deciso di non iscrivere il sito “Venezia e la sua laguna” nella Lista del Patrimonio Mondiale UNESCO in pericolo».
Merito di chi? Continua il ministro e santo: «Il lavoro di squadra svolto in questi mesi dal Ministero della Cultura insieme al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, alla Regione Veneto, al Comune di Venezia e alle istituzioni che compongono localmente il Comitato di Pilotaggio del sito, ha fermato un’indebita manovra puramente politica e priva di un ancoraggio su dati oggettivi». E aggiunge: «Venezia, quindi, non è in pericolo. Negli ultimi mesi il Comune ha adottato provvedimenti coraggiosi per gestire il turismo (5 euro per entrare a Venezia, ndr) e garantire la tutela dello straordinario patrimonio culturale della città. Il Ministero della Cultura è al suo fianco…».
San Giuliano quindi, in un solo anno al governo, ha salvato Venezia dall’acqua alta. Prendete nota. Peccato che nei mesi scorsi non avesse ancora coscienza dei suoi poteri taumaturgici. Ci saremmo risparmiati morti e disastri dell’alluvione in Romagna e in Toscana, ma sono sicuro che se il santo ministro si fosse impegnato un po’ di più, avrebbe salvato anche noi, in fondo gli bastava dire due parole: «Ma quale alluvione, era solo un acquazzone».

fracnesco monini


Francesco Monini

direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio