Di cosa staranno parlando Giuseppe e Daniele?

di Monini Francesco

Daniele, guerriero senz’armi
Si può scrivere qualcosa di speciale, di unico, di mai detto e mai scritto, di una persona speciale che ci ha lasciato? Appena ho saputo che il nostro Daniele se n’era andato, improvvisamente, senza malattia e senza dolore spero, ho cercato dentro e fuori di me “parole nuove” per ricordarlo e per raccontarlo a chi non ha avuto la fortuna di conoscerlo e di stargli accanto. Perché Daniele Lugli, la sua gentilezza, la sua intelligenza, la sua infallibile memoria, la sua cultura che spaziava oltre ogni siepe e sembrava non finire mai, e soprattutto Daniele e le sue mille (e 1.000 questa volta è una stima per difetto) “battaglie disarmate” avrebbero davvero bisogno di parole nuove, diverse da quelle così logore che si usano nei necrologi e nei coccodrilli.
Parole speciali per un uomo speciale? Forse è un’impresa impossibile: gira e rigira, cambia una lettera, leva un avverbio, ribalta una frase, ma alla fine le parole sono sempre quelle, uguali per tutti. Ma ora, almeno ora che la commozione e il dolore prevalgono sul ragionamento e perfino sulla memoria, non voglio raccontare tutto quello che Daniele è stato, tutto quello che ha fatto, ideato, tentato e promosso durante la sua lunga vita operosa.
Ci sarà tempo per farlo, sul quotidiano online Periscopio a cui collaborava con affetto, e a tante riviste, grandi e piccole, famose e oscure: la sua Azione nonviolenta prima di tutto, e naturalmente il nostro trimestrale di incontri e racconti madrugada.
Ora, quello che vorrei spiegare è perché Daniele fosse così diverso da tutti noi e da tutti gli altri. Perché era unico e non sostituibile? Così unico che, se riferita a lui, l’abusata frase «non nascerà più uno che gli assomiglia» suona invece come semplice verità. Perché allora? Perché Daniele – cambiando lavori, incarichi, impegni, visitando tanti luoghi, ambienti, gruppi, attraversando decenni e decenni di storia locale e nazionale – è rimasto caparbiamente fedele al suo credo e alla sua passione: la nonviolenza, la via del dialogo, il pacifismo, la grande lezione di Aldo Capitini e di Silvano Balboni. Era così il giovanissimo Daniele già in campo nei primi anni ’50 del secolo scorso. Ed era così Daniele, la barba bianca e lo stesso sorriso, che a Ferrara interveniva agli animati e conviviali incontri della redazione di questa rivista.
Dunque la sua coerenza, che non sarebbe gran cosa se non fosse merce rarissima in un presente scandito dal conformismo e in una politica ridotta a immagine e malata di trasformismo. Ma anche la coerenza di Daniele era speciale, non diventava mai monotonia, non era un disco rotto che ripropone una vecchia canzone dimenticata. Ogni suo gesto, ogni sua iniziativa, ogni suo intervento era assolutamente radicato nel presente, informato dei pensieri dei giovani, articolato sempre in forme nuove.
Lo ascoltavi e Daniele ti apriva sempre vie nuove. E pensavi: «Ah, a questo non avevo mai pensato!». Parlava a bassa voce, ti spiegava e ti convinceva che solo seguendo la stella polare della pace e la nonviolenza potevi costruire un pezzetto di mondo nuovo. Deponendo ogni arma, eliminando la violenza, fuori di te e dentro di te.

Il volo libero di Zaki e il capitombolo di Giorgia
«Non mi aspetto riconoscenza. Era giusto liberarlo» – dichiarazione di Giorgia Meloni dopo il rifiuto di Patrick Zaki di imbarcarsi sull’aereo di Stato. Per il nostro amico e fratello Patrick, per i suoi familiari, il suo avvocato e per i tantissimi che in Italia hanno partecipato alla campagna di Amnesty International, è stata una settimana al cardiopalma. Nel breve giro di tre giorni (condanna, grazia, scarcerazione), Patrick Zaki si è liberato dal filo spinato che lo avvolgeva da due anni e che minacciava di spezzare completamente la sua vita. Qualche giorno dopo, con il passaporto in tasca, ha preso un normalissimo volo di linea (classe economica) e domenica pomeriggio è atterrato nella sua amata Bologna. Mentre gioivamo per il volo libero di Patrick Zaki, Giorgia Meloni “capitombolava” sul rifiuto dello stesso Zaki di salire sul volo di Stato, messo “generosamente” a disposizione dal governo italiano. Poi, per trovare una via d’uscita al grande imbarazzo istituzionale, cercava di intestarsi il merito della liberazione di Zaki.
Per comprendere la furbata (non riuscita) di Giorgia, per vederla scivolare a terra in un penoso capitombolo, bisogna concentrarsi sulla riconoscenza. Che è un vocabolo un po’ ottocentesco, una parola che, come il suo sinonimo gratitudine, si usa ormai così poco che può succedere di dimenticare il suo significato, o addirittura di usarla attribuendole un significato contrario a quello autentico. Per ignoranza o per calcolo. Secondo il vocabolario della lingua italiana la riconoscenza è il «sentimento o manifestazione di devozione per un benefattore, di solito associato all’intenzione di ricambiare il beneficio: avere, sentire r. per (o verso) qualcuno; assolvere a un debito di r.». Ne deriva che: – la riconoscenza è un sentimento che può provare il beneficiato verso il beneficiante per un dono o un favore ricevuto. Non è un obbligo, ma solo una possibilità; – che non è previsto quindi che il beneficiante possa pretendere o anche semplicemente aspettarsi la riconoscenza del beneficiato. Diversamente il suo non sarebbe stato un dono o un favore gratuito; – ancora più impossibile “aspettarsi riconoscenza” per un dono e un favore che non si è mai fatto. Per intenderci: se Antonio regala 10.000 euro a Riccardo (ridotto sul lastrico), Antonio può aspettarsi la riconoscenza di Riccardo (anche se non è molto fine), ma è escluso che possa aspettarsi riconoscenza Alessandro che non ha mosso un dito per aiutare il povero Riccardo.
Quando Patrick Zaki rifiuta il volo di Stato e l’incontro con Giorgia Meloni e ministri vari, dice senza dirlo quello che tutti sanno o dovrebbero sapere: che è tornato libero senza che il governo italiano possa vantare alcun merito.
Di conseguenza, la risposta di Giorgia Meloni assume un aspetto surreale, ridicolo, farisaico: «Non mi aspetto riconoscenza». Ma per cosa? Ma quando mai? «Era giusto liberarlo». Come se fosse stata la grande pressione politica e diplomatica italiana a “costringere” il presidente egiziano a liberare Patrick Zaki. Naturalmente, l’abitudine alla menzogna, il vizio di raccontar balle agli italiani, non nasce con Giorgia e il suo governo di destra. Rimaniamo in Egitto. Sono passati sette anni dal sequestro, le sevizie e l’omicidio di Giulio Regeni, in tutte le piazze italiane rimane appeso lo striscione giallo della grande campagna promossa da Amnesty International, proprio quella campagna che lo stesso Zaki aveva portato anche in Egitto e che gli era costata l’arresto. Lo sappiamo, l’Egitto è un grande partner commerciale dell’Italia. C’è il petrolio da importare. Ci sono le nostre armi da vendere all’esercito egiziano. Ci sono le aziende italiane che fanno affari e lavorano in Egitto. Lo sappiamo, è sempre stato così, per tutti i governi: gli affari vengono prima dei diritti. Quindi non si può fare nessuna azione concreta, nessuna pressione commerciale, nessuno sgarbo diplomatico: la verità per Giulio Regeni, come la liberazione di Patrick Zaki non si può pretendere. Al massimo si può sperare nella clemenza di un dittatore e, se sei abbastanza cinico, aspettarti un grazie.

Francesco Monini
direttore responsabile di madrugada e del quotidiano online Periscopio

Francesco Monini


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