Piccoli vuoti e immense voragini
Due vuoti.
Un terrazzo sgombrato: partono i lavori.
Un terrazzo amato; ogni pianta una storia; ogni fioritura un evento. Un piccolo Eden a quindici metri di altezza, sullo sfondo dei Colli Euganei e delle Prealpi. Migrano i vasi: il basilico si insedia in soggiorno; stanze e corridoi rinverdiscono. Selva d’appartamento, serra domestica.
Sul terrazzo rimangono i segni dei vasi. Una promessa di ritorno: riappariranno le piante. Il giardino terrestre rifiorirà.
Il vuoto porta con sé l’ombra della vita delle cose perse, cedute, rimosse, allontanate.
Così, nel vuoto, si scopre che spazio occupato è in fondo rassicurante. Ha un nome e un cognome del luogo e del tempo.
Una città si sveglia un mattino, a metà aprile di quest’anno. Una metropoli di cinque milioni di abitanti: dopo trent’anni di dittatura è una città vibrante, piena di movimento, di giovani curiosi, di artisti. Non mancano i problemi, ma prevale il desiderio di futuro.
Improvvisamente la luce del mattino si offusca del fumo delle bombe, degli incendi, degli scontri esplosi tra due fazioni armate. La città è Khartoum, la capitale del Sudan.
Era Khartoum; era una città. Dopo due mesi di combattimenti non rimangono che cumuli di rovine, milioni di profughi, altri milioni di persone che lottano ogni giorno per recuperare acqua, cibo, per cercare salvezza. Qui il vuoto è drammatico; è la sconfitta del vivere civile, di ogni sogno, di ogni speranza.
Nell’immane disastro, solo la poesia riesce a trovare parole, a vedere la f ine e (insieme) l’inizio, come nella limpida scrittura di Wisława Szymborska:
Dopo ogni guerra c’è chi deve ripulire. [...] C’è chi deve spingere le macerie ai bordi delle strade per far passare i carri pieni di cadaveri. C’è chi deve sprofondare nella melma e nella cenere, tra le molle dei divani letto, le schegge di vetro e gli stracci insanguinati. C’è chi deve trascinare una trave per puntellare il muro, c’è chi deve mettere i vetri alla finestra e montare la porta sui cardini. Non è fotogenico e ci vogliono anni. Tutte le telecamere sono già partite per un’altra guerra. Bisogna ricostruire i ponti e anche le stazioni. Le maniche saranno a brandelli a forza di rimboccarle
Ciò che manca, paradosso, è più presente. Sulla terrazza, come tra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, che continuano a scorrere inconsapevoli della città distrutta.
I cantieri trasformano il vuoto e lo ridefiniscono.
La guerra… La guerra no.