Un cammino verso nuove forme di convivenza

di Bertin Mario

Ivo Lizzola ha scritto un libro. Come un albero produce le foglie.
In verità ne ha scritti molti di libri. Sono le pietre miliari di un percorso di vita. Di un cammino particolarissimo dentro la storia.
La sua storia. La nostra storia. La storia di tutti. Ma questo ultimo io l’ho trovato un libro speciale. Perché è il nutrimento di cui avevamo bisogno e di cui eravamo – coscientemente o inconsciamente – in cerca, tra le sterpaglie del non-pensiero che invadono il terreno della nostra vita. È un dono grande. È un libro scritto con gli occhi spalancati sulla realtà. Dentro e fuori. Su quello che succede e su quello che non succede. È un libro che si fa carico di presenze e di assenze, di frustrazioni, di errori e di sguaiate angosce.
Che offre però orizzonti. Senza essere una bandiera a brandelli.
È un libro senza nemici. Pieno di generosità e di stupore puro. Si affaccia sull’aperto. Ha il respiro ampio della luce.
È un libro in cui troviamo le infinite sfumature di un sogno. Il sogno è che possa ancora esserci un futuro degno di essere vissuto, una vita illuminata e guidata da una ricerca di senso. E che questa luce possa tradursi in una pedagogia. Necessaria a tessere incontri.
Ciò che questo libro vuole essere, l’autore lo dichiara fin dal titolo: In tempo d’esodo. Una pedagogia in cammino verso nuovi incontri intergenerazionali. Impossibile da raccontare. Lo ha fatto, però, mirabilmente lo stesso autore nella “Conclusione”, della quale noi ci limiteremo a riprodurre alcuni passaggi essenziali, perché la sua scrittura ha il potere di nutrire l’anima: Queste pagine hanno provato a rivolgere uno sguardo pedagogico su un tempo che faticosamente è da riconquistare come un cammino oltre e fuori dai miti, dalle funzionalità, dagli equilibri di ieri.
Che erano, per altro, già svelati nella loro fragilità e anche nella loro ingiustizia, nella loro pericolosità per la sostenibilità e per il futuro delle generazioni giovani e a venire. Causa della disequità nella distribuzione e nell’accessibilità alle risorse, alle possibilità, alla cultura e alla salute.
Un tempo d’esodo abbiamo chiamato quello che si è aperto dopo le grandi fratture, i grandi disvelamenti, e le uscite dagli ordini di prima. Un tempo da tornare a sperimentare come un cammino, e nel quale cercare e “provare”, anticipandoli, un orizzonte e una promessa. Una promessa buona tra uomini e donne, tra generazioni, tra culture e popoli. Tra generazioni forse anzitutto.
E il dono – la sua pratica e la sua attesa, la sua capacità di liberare e di legare – ha attraversato le sofferenze, i corpi, le biografie. Ha caratterizzato le “piegature” delle risorse e dei saperi, le forme del legame sociale, le attese verso la politica, verso l’economia, verso la scienza. Il dono, in tempo d’esodo, è come tornato al cuore della dinamica che apre vita come vita comune e cammino possibile.
In questo tempo, l’autore dice d’essersi ricordato e d’essersi tenuto davanti «il dolore e la bellezza del vivere, della realtà di essere poveri». E di avere imparato “nuove gratitudini”, con la possibilità anche di costruire insieme. «Ci si è trovati, così, al di là del dovere, nell’attesa fraterna».
È una maturazione dei giorni, degli incontri, dello sguardo che viene colto da ciò che vale e che ti chiama e destina; dal lungo respiro della passione e dal desiderio. C’è fatica e prova, sudore e attesa in tutto questo; provi tutto questo ogni giorno in cui senti dissolvenza, in cui senti il finire. E poi la frattura dell’evento, una sorta di luce che appare dalla crepa: un po’ di stupore, anche di bellezza, magari di gioia. […] “Per vivere devi vivere”: devi andare all’incontro e lasciarti incontrare, entrare nel cammino e camminare. Allora ti viene in chiaro che quel che conta non è la quantità che pensi di cumulare e tenere, e neppure la qualità che appare qua e là o, per un po’, in quel che fai: è piuttosto la felicità che ti coglie, mentre giochi la partita della vita.
Come se riaffiorasse via via con più forza la consapevolezza che le vie del sapere, del potere non liberano la vita nella gioia. Nel volo serve anche sognare. Sognare apre il sapere e il potere, sognare è cogliere immagini e immaginazioni. È vedere la realtà, le persone, le esperienze in altra luce. […] La vita chiede di rinnovare un sì alla vita. […] Riflettere, narrare, sondare passaggi è uscire dalle ricorrenti nebbie delle “normalità” scontate e vuote.
Il poeta francese Christian Bobin apre uno dei suoi emozionanti piccoli libri (La présence pure, Le temps qu’il fait, 1999) con questo testo: «L’albero è di fronte alla finestra del soggiorno. Io lo interrogo ogni mattina: “Che c’è di nuovo oggi?”. La risposta arriva senza esitazioni, me la danno centinaia di foglie: “Tutto”».
Ecco. Dobbiamo stare anche noi a finestre aperte e guardare il mondo con gli occhi esteriori e con gli occhi interiori. Con attenzione e attesa. E chiedere anche noi che cosa c’è oggi di nuovo al mondo. Non per possederlo, ma per accoglierlo. A questo mi sembra che ci inviti il profetico (nel suo senso più pieno) libro di Ivo Lizzola.

Mario Bertin

Scrittore, componente di madrugada