I salvati e i sommersi
La congiura dei poeti
«Mi sono spesso chiesto, strada facendo, da dove sarebbe arrivata la soluzione al problema che affrontiamo, quello dell’umanità che mi sembra stia annaspando nella sua ricerca di una soluzione a quello che non va. Una volta, attraversando in nave lo stretto di Malacca, in una di quelle belle serate in cui si stava sulla tolda della nave a guardare il tramonto, vidi all’orizzonte decine di splendide isolette e mi venne la divertente idea che la soluzione sarebbe arrivata da una congiura di poeti. Perché soltanto la poesia mi pareva potesse ridarci una spinta di speranza. Identificai un’isola lontanissima, insignificante, che non era segnata su nessuna carta, ma in cui immaginavo crescesse una generazione di giovani poeti che aspettavano il momento di prendere in mano le sorti del mondo. Avevo in qualche modo il sentimento che non c’era una soluzione nei partiti, nelle istituzioni, nelle chiese, dove tutti ripetono le stesse cose».
Questo appunto di Tiziano Terzani fu trovato e pubblicato dopo la sua morte. Può sembrare un pensiero leggero, una nota di colore, una strana fantasia; io lo leggo come un piccolo testamento. Da prendere assolutamente sul serio.
Poesia nella madrugada
Madrugada ha compiuto 33 anni, 130 numeri usciti regolarmente ogni tre mesi, segnando il passaggio delle stagioni. Dal numero 100, 8 anni fa, abbiamo scelto di aprire la rivista con due pagine di poesia: un numero tutto dedicato a pensieri sulla speranza, la prima poesia era Sempre nuova è l’alba del sindaco poeta Rocco Scotellaro.
Non è possibile, o almeno è fuori dalla mia portata, scrivere qui cosa sia la poesia, se sia sintesi o illuminazione o gioco, pianto, grido, profezia, o tutte queste cose e altre ancora.
So però, credo di sapere, a cosa serva: la poesia non serve a niente. Non serve a nessuno, non procura soldi, status, onori. E non serve nessun potere. Non dobbiamo neppure fingere una dedica al mecenate, come Virgilio o Ariosto.
Così, nella madrugada, nella notte più nera che precede l’alba, cioè anche qui, dove anche io e voi siamo, dare spazio, lasciare il primo posto alla poesia, non è un vuoto ornamento, ma una piccola luce per il viandante nel buio del bosco del mondo.
È un’intenzione, un’attenzione, un respiro profondo ed è anche un’azione politica, come racconta il sogno a occhi aperti di Tiziano Terzani.
Un popolo di poeti
«Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori». È il Duce, in un celebre discorso il 2 ottobre 1935, in risposta alla condanna delle Nazioni Unite inflitta all’Italia per l’aggressione all’Abissinia, a confezionare questa sintesi dell’italianità. La frase, a nostra perenne gloria e vergogna, è impressa a cubitali caratteri romani sul Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR.
Mussolini le sparava grosse ma, adeguatamente corretta, la frase non è poi così sballata. A patto di tradurre quel navigatori e trasmigratori con i milioni dei nostri emigrati (per fame) nelle Americhe o in Nord Europa. Eroi? Pochissimi, e non certo quelli delle nostre sanguinose campagne coloniali, di cui non chiederemo mai abbastanza scusa. Santi? Non ne vedo, anche se ogni nuovo papa è un santo assicurato. Artisti, pensatori, scienziati? Certo, ne abbiamo avuti di veramente grandi, e nello Stivale ne nasce ancora qualcuno, in Italia come a ogni latitudine.
Dove però il Duce ci ha preso in pieno è con quel popolo di poeti.
Lo siamo, assolutamente. Me ne accorgo ricevendo a Periscopio, il quotidiano online che dirigo, decine e decine di mail poetiche…
«con preghiera di pubblicazione».
Quasi tutti in Italia scrivono o hanno scritto poesie. L’Istat non se ne occupa, ma sono milioni i poeti in erba. Alcuni cercano un qualche alloro, anche secondario, pubblicano un librino, partecipano a un premio di provincia, si fanno un blog su misura. Ma sono una minoranza; tutti gli altri, il popolo italiano dei poeti, scrive poesie perché non può farne a meno.
Un’associazione semiclandestina, di cui taccio il nome, ha pensato di stampare centinaia di queste poesie popolari e di incollare questi foglietti sui muri delle città. In periferia, perché i centri storici sono diventati come le sale di un museo, belli e intoccabili, senza vita.
Le poesie murali non recano il nome dell’autore. È solo poesia diffusa. Libera, anarchica, fuorilegge. Forse il frutto della congiura dei poeti sognata da Terzani.
Un Paese di direttori
Per me c’è un solo presidente, Sergio Mattarella. Lui, da solo, all’indomani della tragedia di Cutro, è partito dal Quirinale ed è andato sulla costa calabrese per rendere omaggio alle bare dei profughi morti nel Mare Nostrum, vittime del mare e dell’inefficienza (indifferenza?) della Guardia Costiera italiana e del nostro governo.
Un solo presidente, ma tantissimi direttori. Se accendete il televisore e vi sintonizzate su un qualsiasi salotto politico, vi accorgerete che l’Italia è il Paese dei direttori. In studio ce ne sono sempre tre o quattro: direttori, o ex direttori ma ancora appellati col titolo onorifico di direttore.
Direttore di una rete televisiva, ma soprattutto direttori di un giornale, di un quotidiano, meglio se piccolo e invisibile.
Anche se sono rimasti in pochi a comprare il giornale in edicola, ogni giorno nasce un nuovo micro quotidiano. Chi lo paga se non vende copie? Per ora soprassediamo.
Proprio in questi giorni aspetto, con poche speranze, l’uscita de l’Uità che risorge per la quarta volta. Con un proprietario editore molto poco limpido e con Piero Sansonetti, ex comunista (dice lui), ospite fisso di Rete 4 e attuale direttore del mini quotidiano Il Riformista. Dal 3 maggio sulla poltroncina de Il Riformista si è seduto Matteo Renzi, vecchia conoscenza, in cerca di visibilità.
Ma il sottobosco dei quotidiani (e dei direttori) è davvero fittissimo. Alla Verità (mai titolo fu più audace) è direttore il perenne strafottente Maurizio Belpietro, mentre al Dubbio un Carneade qualsiasi, Davide Vari. Tommaso Cerno è invece direttore de L’Identità (in passato, per qualche mese, aveva diretto un decaduto Espresso). A La Notizia Gaetano Pedullà, a Leggo Davide Desario, a Metro News Stefano Pacifici, a La Discussione Giuseppe Mazzei.
Al Domani Emiliano Fittipaldi che ha appena sostituito il direttore Stefano Feltri (in attesa di nuovo incarico direttoriale).
A che servono tutti questi giornalini? chi li conosce? chi li legge? chi li paga? Io mi sono fatto questa idea: prima di tutto servono a fabbricare nuovi direttori. E i direttori a chi servono? Ai direttori stessi. A far strada, almeno un po’ di strada, nel Paese dei direttori.
E servono a una cosa molto più seria. Anche un microscopico giornale serve a far politica. Nessuno lo compra, ma il titolo viene visto e letto in tutte le rassegne stampa televisive. Se poi il titolo è forte, falso, fazioso, becero… ancora meglio: è un bel cazzotto in faccia alla parte e al partito avversario. Poi, a ribadire il concetto, in tivù ci andrà il direttore, in persona.
La sventura di sopravvivere
Primo Levi non è solo l’autore di Se questo è un uomo e La tregua, ma uno dei più grandi scrittori e poeti del secondo Novecento. Il suo ultimo libro, poco prima del suicidio, ha un titolo potente e terribile, I sommersi e i salvati. Terribile, perché racconta il dolore inestinguibile dei sopravvissuti, di quelli che, invece di perire come i compagni vicini, sono stati risparmiati dalla morte, ma che non possono in nessun modo scampare al ricordo dell’orrore.
Chi sopravvive, ci dice Levi, chi ha avuto questa strana fortuna, è solo temporaneamente, solo apparentemente, salvo. Vivo, ma in perpetua compagnia dell’orrore, fino al punto – è la storia di Primo Levi – di scegliere, dopo più di quarant’anni dall’Olocausto, di darsi la morte, sommerso insieme ai sommersi.
Piangiamo le migliaia di vittime innocenti, gli annegati del Mediterraneo, i civili e i soldati periti in inutili guerre, i ragazzi morti di droga o della follia di un sabato sera.
Ricordiamo, piangiamo i sommersi.
I salvati ci interessano molto meno.
Loro hanno avuto la sventura di sopravvivere, ma pensiamo stupidamente: «In fondo, hanno avuto una bella fortuna!».