La comune bellezza di un lascito
C’è stato un tempo nel quale innumerevoli opere a uso collettivo sono state concepite da congregazioni religiose, enti morali ed enti pubblici.
Scuole, seminari, convitti, ospizi, conventi, ospedali, orfanotrofi… sono solo alcune voci di un elenco lungo e variegato.
C’è stato poi un tempo recente – nella seconda metà del Novecento – nel quale una quantità enorme e capillarmente diffusa di edifici e strutture comunitarie è sorta dalla creatività di parrocchie, diocesi, cooperative, associazioni, in un momento in cui emancipazione personale e trasformazione sociale erano concetti mobilitanti e indissolubilmente legati.
In questo numero di madrugada porremo l’accento sull’uso o sul riuso di beni a vocazione collettiva che hanno la loro origine – remota o recente – in ambito comunitario/religioso/ecclesiale.
Oggi, in maniera sempre più rapida, molte comunità parrocchiali stanno facendo fronte a importanti cambiamenti dovuti a una molteplicità di fattori, come il calo numerico dei preti e il mutamento del sentimento religioso.
Si tratta di cambiamenti che in parte modificano l’ideale di comunità soggiacente, con ricadute di tipo anche eminentemente pratico, relative ai beni immobili costruiti nel tempo con la fatica e le risorse dei membri delle comunità.
Che fare dei beni non più utilizzati o sottoutilizzati? Come gestire spazi e strutture concepiti a fini comunitari e di fatto pagati dalla comunità a fronte di strumenti di governo non necessariamente collettivi (parroco come legale rappresentante, parere vincolante del collegio diocesano dei consultori…)? Su un’altra scala, i medesimi problemi si presentano anche per le congregazioni religiose, strette tra l’esigenza di mantenere i conti in ordine e il proposito di non tradire il carisma fondativo.
Benché le congregazioni dispongano di strutture più imponenti e di modalità di governo diverse dalle parrocchie, talvolta la necessità di programmare dismissione o rilancio di alcune strutture ha natura simile.
Tali processi pongono all’attenzione domande importanti.
Prima tra tutte, quali rappresentazioni di comunità sono in gioco? E poi, come evitare l’alienazione di quei beni che sono specificamente vocati all’uso collettivo? Come mantenere alimentato il concetto stesso di “collettivo” (o di “comunitario”) in tempi contrassegnati spesso da atomizzazione, personalizzazione e privatizzazione? Senza indugiare sul rimpianto di un’epoca storica che potrebbe anche non ripresentarsi più per come l’abbiamo conosciuta, questo numero di madrugada intende investigare le innovazioni sociali che si stanno sperimentando in alcune realtà territoriali, laddove si crea qualcosa di nuovo per mantenere vivi i beni comunitari/collettivi.
Gli articoli che seguono presentano quattro esempi che ci sembrano paradigmatici.
Viaggeremo nel tempo, dall’antico lascito di un vescovo di una diocesi non più esistente (reinterpretato oggi in maniera innovativa) fino a progetti di recentissima concezione.
E viaggeremo nello spazio, dal Delta del Po a Bassano del Grappa, da Padova fino alla città di Québec.
Analizzando tali processi, quali pratiche innovative si delineano? Quali modelli di gestione vengono adottati? Quali partenariati si impongono? Quali competenze vengono messe in campo? Quali nuove competenze vengono invece acquisite? L’auspicio è che alcune delle risposte a queste domande possano tracciare percorsi d’innovazione utili ad altri.
Davide Lago
docente di pedagogia generale, formatore in percorsi autobiografici