Lezione dal mondo sospeso
Qualche mese fa, in una sala cinematografica padovana.
Gli spettatori hanno appena finito di vedere il (bel) film di Alberto Valtellina e Paolo Vitali La scuola non è secondaria, girato durante il primo lockdown al liceo “Mascheroni” di Bergamo. Fra il pubblico padovano c’è una nutrita rappresentanza di studenti e studentesse di scuole secondarie. Un ragazzo alza la mano e, con sincerità disarmante e forse un pizzico di ironia, dice: «Volevo precisare che nei mesi della didattica a distanza noi ci siamo annoiati esattamente come quando c’era la didattica in presenza».
Qualche mese dopo, in una cena con molti genitori di ragazzi e ragazze che frequentano le scuole superiori. Sento racconti di verifiche pesantissime somministrate il giorno stesso del rientro a scuola dopo mesi di DaD. Voti penalizzanti inflitti (se posso dire: anche con un po’ di sadismo) in modo tale da pregiudicare quasi del tutto le possibilità di recupero. Numeri allarmanti di studenti e studentesse che hanno dovuto ricorrere ad assistenza psicologica e a terapie farmacologiche. Alcuni casi di crisi psichiatriche con necessità di TSO.
Sono due esempi, fra i molti possibili, di quanto il mondo degli adulti (genitori, insegnanti) abbia capito poco, se non pochissimo, di quello che è accaduto a partire dai primi mesi del 2020 nei corpi, nelle menti, nelle anime dei ragazzi e delle ragazze.
Il primo (gravissimo) errore che è stato fatto, secondo me, è di aver considerato il lungo e intermittente periodo di interruzione delle lezioni a scuola come una fase eccezionale, terminata la quale (ammesso che sia terminata) si sarebbe potuto tornare alla normalità.
Quale normalità? Se ha ragione (e io credo che ne abbia molta) il ragazzo intervenuto al cinema, la normalità prepandemia era quella di una scuola che non teneva minimamente conto delle persone alle quali era indirizzata la propria azione.
Lezioni (solo) frontali. Selezione feroce. Incitamento alla competizione per l’affermazione individuale. Regole prescritte senza appello al consenso.
Modalità che, in molti casi, si sono ripetute pari pari con la didattica a distanza, senza cambiare nulla di ciò che si era fatto prima e di quello che si sarebbe ripreso a fare poi.
Naturalmente ci sono state eccezioni e azioni educative di altissima qualità umana e pedagogica e non sono state poche. Come Rete di Cooperazione Educativa abbiamo cercato di documentarne alcune nel libro Lontani, per quanto.
Pensieri e azioni educative nel mondo sospeso, pubblicato da Franco Angeli Editore – .
Ma quando studenti e studentesse hanno (giustamente) protestato con il ministro Bianchi per un ritorno alle modalità di esame “come se niente fosse accaduto”, ciò che molti commentatori hanno voluto sottolineare, con la solita insopportabile prosopopea dei paternalisti, è stata una presunta assenza di voglia di studiare e una (inesistente) richiesta di promozione automatica.
L’incredibile superficialità di noi adulti in campo educativo porta, troppo spesso, a una trascuratezza nelle relazioni che, in situazioni di fragilità collettiva come quelle determinate da una pandemia, può avere effetti deleteri a medio e lungo termine.
Sarebbe allora necessario – e l’occasione che ci viene data è davvero storica – provare a ridefinire e ri-sottolineare alcuni punti, secondo me decisivi e irrinunciabili:
1. L’apprendimento è maggiore e migliore se tutti i soggetti inseriti nel processo educativo si trovano in salute (secondo la definizione dell’OMS per la quale la salute è uno «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia»). Ciò non significa che per imparare non sia necessario affrontare delle fatiche, ma sarebbe ora di accettare come dato acquisito il concetto che fatica e sofferenza non sono sinonimi.
2. I lunghi mesi di chiusura delle aule e di didattica a distanza hanno conclamato un dato di fatto che i più avvertiti conoscevano già: i ragazzi e le ragazze sono molto più competenti nell’uso degli strumenti digitali e dei loro linguaggi dei genitori e degli insegnanti. La DaD non è un male in sé, così come l’insegnamento in presenza non è automaticamente buono e produttivo. Così come Célestin Freinet prima e maestri e maestre del Movimento di Cooperazione Educativa poi usarono la tipografia a caratteri mobili in classe e la corrispondenza via posta per condividere con altri a distanza i loro elaborati, si potrebbe (esistono già molti esempi in questo senso) cogliere l’occasione per un uso intelligente e innovativo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per allargare le frontiere concettuali e didattiche (segnalo come utilissimo riferimento le proposte che anche a questo proposito si trovano nel progetto Scuola Sconfinata e nel libro omonimo pubblicato da Fondazione Feltrinelli e scaricabile gratuitamente all’URL https:// fondazionefeltrinelli.it/schede/scuola-sconfinata-peruna-rivoluzione-educativa/).
3. Le attività motivate solo dal voto, la competizione, la selezione, la ricezione passiva, l’imposizione della disciplina fondata sul timore non solo sono princìpi e pratiche assai discutibili sul piano etico e morale, ma, semplicemente e in modo molto chiaro, non funzionano. Questo vale sia che si insegni davanti al monitor di un pc a un gruppo più o meno collegato da casa, sia che si stia in cattedra davanti a una fila di banchi.
Funzionano molto di più (e, diciamolo, aiuterebbero tutte e tutti noi a vivere meglio) attività motivate da un impegno interessato, cooperazione, recupero dei più fragili (che, di volta in volta, per gli accidenti della vita, potremmo essere anche noi), regole fondate sul consenso e sulla condivisione.
Qualsiasi neofita di discipline scientifiche ci potrebbe dire che sbagliando s’impara. Abbiamo sbagliato molto.
Vediamo, almeno, di farne tesoro.