Fare o non fare. Non c’è provare

di Realdi Giovanni

Il saggio Yoda ammonisce il giovane Skywalker ne L’impero colpisce ancora. Il tirocinante jedi si allena, ma il suo «ci proverò» suggerisce rassegnazione: sta sperimentando il proprio limite, tentenna. Il Maestro lo inchioda all’alternativa secca: si tratta di decidersi per agire oppure per non farlo, tertium non datur. La severità delle parole rimanda all’assenza di severità interiore: anche optare per il non fare è praticabile, ed è comunque effetto di una crisi, se siamo consapevoli del senso complessivo del percorso intrapreso. Chi semplicemente “ci prova” sta evitando il bivio di fronte al quale è posto. Rimane «tiepido», leggeremmo nel libro dell’Apocalisse. La stagione pandemica non ancora conclusa è un’occasione di crisi per il sistema-scuola. E crisi significa “bivio”, biforcazione, cioè luogo nel quale una delle due direzioni va presa – se si intende proseguire. Rimanere fermi è all’apparenza una terza possibilità: me ne sto qui, sbrigo l’indispensabile per non diventare “fuori legge”, attendo che qualcosa accada. Equivale all’atteggiamento di tutte le persone che hanno aspettato (e salutato) il ritorno alla normalità. Quel che emerge dalle riflessioni che abbiamo raccolto è invece il fatto che tale normalità avesse bisogno di essere discussa: un intero blocco di pratiche e discorsi che, con pallidi maquillage delle pseudo riforme ministeriali, replica sé stesso, da decenni. La domanda di senso, in nome della quale fare/ non fare, cioè decidersi per quali azioni e quali parole in fase di crisi, è ovviamente enorme: a cosa dovrebbe servire la scuola? Il dibattito è aperto, ma non agito – cioè non se ne parla, ma ciascuno degli attori (insegnanti.
genitori, alunni, personale tecnico) si comporta come se avesse chiara la propria risposta. La scuola serve a prepararsi per affrontare i gradi successivi e quindi in ultima istanza il cosiddetto mondo del lavoro? Serve a tenere buone e ferme, sotto controllo.
milioni di persone che altrimenti non sapremmo a chi affidare o, se più grandi, andrebbero in giro a far danni? Serve a mettere voti? A imparare che nella vita nessuno ti regala nulla? Serve a dare un mestiere stabile all’altro milione di persone, quello degli adulti? A insegnare a legger, scriver e far di conto? Un’istituzione, se è veramente tale – cioè che sta, permane.
nel tempo – inevitabilmente replica sé stessa. Il che non è scandaloso: secondo il principio costituzionale dell’uguaglianza, formale e sostanziale, si tratta di garantire il libero e gratuito accesso a chiunque, nel presente e anche nel futuro. Sacrosanto. Ma a cosa si dà libero accesso? Dove conducono queste porte che dovrebbero rimanere sempre aperte? In quanto troverete pubblicato aleggia la stessa convinzione: la scuola può essere un luogo di relazioni leali, nel quale valorizzare la diversità tra le persone, contribuisce a trasmettere quanto di bello lo spirito umano abbia concepito nel tempo e, insieme, a vedere il mondo non più come un cumulo di dati di fatto, ma come un insieme palpitante di possibilità. Ecco, la stagione pandemica.
con le sue chiusure e le sue aperture, è stata per molti e molte una possibilità feconda: di sperimentare nuovi mezzi, di rivedere le proprie convinzioni, di uscire da meccanismi inconsapevoli. In fin dei conti, di accettare l’ingombrante verità che il “con chi” è molto più urgente del “come”.

Saper leggere il libro del mondo
Da settembre siamo tornati a vederci in viso. Quelle parti dei volti degli altri che avevamo fatto a tempo a dimenticare.
e che ci sembravano così strane quando veniva rimossa la mascherina, sono tornati sotto i nostri occhi.
Gli occhi. Erano rimasti l’unica cosa visibile, l’unico contatto. Ma ora? Spariranno? Ora che sarà più semplice concentrarsi sul movimento delle nostre labbra, su smorfie o sorrisi, ora che non sarà più necessario guardarci negli occhi, riusciranno ancora a leggere le nostre emozioni, le nostre paure, il nostro divertimento, la nostra anima? A capire che sentiamo necessario essere letti come persone.
e non come un metro di valutazione di quanto abbiamo capito il nuovo argomento?.
La pandemia ci ha insegnato qualcosa… o, forse, ce l’ha solo messo davanti agli occhi. Abbiamo bisogno di un rapporto umano, di essere messi alla prova, giorno dopo giorno.
di persone che accolgono la nostra sfida, di nuove motivazioni per imparare e, forse, anche per insegnare. L’abbiamo capito? Forse non tutti. L’abbiamo fatto? Forse qualcuno.
Basta aprire gli occhi e… leggere. Sì, leggere. Ma per questo libro non esistono scorciatoie. Non esiste qualcuno che ce lo può leggere ad alta voce, non esiste un riassunto su internet, perché ognuno lo legge a modo proprio. Bisogna ricominciare a prendere familiarità con i volti, le espressioni.
il contatto delle persone che ci circondano in quello che è il nostro mondo, ricominciare a leggerli, a capirli e a vivere circondati da questi. Perché durante questi ultimi anni ci siamo resi conto che ne abbiamo bisogno, perché ne siamo stati privati. Perché sono bellissimi, e se siamo stati messi davanti a questa sfida, siamo anche capaci di affrontarla.
Iniziamo?
Chiara Allegro quinto anno – liceo Galileo Galilei (Selvazzano, Padova)

Macroproblemi
Pensando alla scuola che viviamo in questo periodo la mia mente si affolla di critiche e polemiche, per poi rendermi conto che a tutti questi problemi non so trovare effettive soluzioni.
Nel mio immaginario un’ipotetica rivoluzione scolastica sarebbe un processo che va al di là di regole, burocrazia e nuove modalità introdotte da un momento all’altro, ma che parta dalla mentalità con cui studenti e insegnanti vivono l’educazione didattica, dalla scuola materna alla scuola secondaria di secondo grado.
Essenzialmente dovrebbe cambiare la nostra risposta alla domanda «Perché vengo a scuola? Perché studio?». La chiave dovrebbe essere la volontà e il desiderio di apprendere poiché l’obiettivo è attualmente troppo sbilanciato verso la valutazione. Non si pretende che ogni ragazzo provi entusiasmo per qualunque argomento, e a tal proposito trovo interessante la possibilità, come già avviene in alcuni paesi.
di poter scegliere – a partire da una certa età – alcune delle materie da frequentare.
In sintesi, penso che le generazioni già integrate nel sistema scolastico odierno siano ormai “irrecuperabili” da questo punto di vista, poiché abituate a ragionare in un’ottica di raggiungimento a tutti i costi di un certo voto. Penso che questo squilibrio influenzi anche il modo di lavorare degli insegnanti, i quali si trovano costretti a utilizzare ogni mezzo per ricavare un certo numero di voti per studente in un determinato arco temporale.
Un altro argomento importante è quello relativo ai docenti. Per lavorare con giovani studenti in una fase per loro di crescita e formazione è necessario avere particolare sensibilità e attenzione. Non si pretende che i docenti siano psicologi professionisti, ma sarebbe necessaria una preparazione ad hoc per il modo di approcciare e capire i giovani senza delegare tutto alla sensibilità individuale. Ad esempio, capire che quello che potrebbe sembrare del semplice sarcasmo nei confronti di un alunno per evidenziare una mancanza potrebbe avere effetti psicologici devastanti. Inoltre, i due anni di covid non hanno di sicuro aiutato a rafforzare i rapporti studente-docente. Ritengo quindi che, oltre a saper trasmettere con passione la propria materia, un insegnante debba saper fare vera e propria didattica.
Tutto ciò non dovrebbe essere proprio solamente di alcuni docenti che si distinguono per bravura acquisita nel corso degli anni o per predisposizione personale, ma di qualunque persona voglia svolgere questo lavoro, maestrx o professorx che sia.
Questi sono forse dei “macro-problemi” che mi vengono in mente pensando alla scuola. Sicuramente ce ne sono molti altri, forse minori e anche facilmente risolvibili.
Francesca Maggini quarto anno – liceo Galileo Galilei (Selvazzano, Padova)

La scuola è soprattutto altro
Non riuscivo a capire perché tutti gli altri bambini odiassero la scuola. Accecato dalla meraviglia, dalla curiosità.
dal divertimento delle ricreazioni, mi era proprio difficile comprendere il senso della tanto abusata frase «la scuola fa schifo». In fondo mi piaceva ogni mattina mettere lo zaino e andare dai miei compagni; poi, quasi dieci anni dopo.
durante il lockdown, ho avuto modo di ricredermi.
In una grigia camera da letto dove la snervante ruotine si mescolava alla pigrizia nell’affrontare le video lezioni in un vorticoso circolo vizioso che mi risucchiava nella sua monotonia e inerzia, la noia che si respirava da dietro lo schermo mi aveva fatto aderire a quella triste e diffusa prospettiva: la scuola mi faceva schifo, perché la scuola era solo “scuola”.
Al contrario, aver potuto trascorrere questo anno quasi nella normalità mi ha fatto di nuovo apprezzare, come da bambino, i lati positivi della vita dentro alle mura scolastiche; per un effetto di luci e ombre è stato forse più semplice notare quali fossero gli aspetti che rendono attraente e stimolante per noi studenti l’ambiente scolastico: non tanto le nozioni che regolarmente ci vengono impartite con costrizione, quanto piuttosto tutto ciò che evade dal mero immaginario istruttivo a cui eravamo limitati in quarantena. Sono le scintille di novità a dare un senso alla routine. L’insegnamento può essere veramente proficuo se nelle lezioni le informazioni vengono accompagnate da un coinvolgimento emotivo che funga da forza propulsiva verso la ricerca e la conoscenza delle informazioni stesse.
La creatività, la motivazione, le relazioni umane, i laboratori extrascolastici, lo scambio costruttivo ed escandescente di idee in un dibattito in classe: tutte cose di cui oi giovani avremmo un viscerale bisogno, ma che non rientrano nel principale spettro di azione a cui la scuola italiana punta. Come ha fatto notare recentemente anche Umberto Galimberti, in Italia la scuola sembra centrare a pieno l’obiettivo istruttivo – tramite un insegnamento e uno studio nozionistico abbinato a dinamiche di paura e minaccia pre-verifica – mentre presenta delle lacune per quanto riguarda l’ambito educativo. E così, se essa viene percepita solo come un opprimente dovere, c’è il rischio che i sogni.
che dovrebbero luccicare negli occhi di noi adolescenti, al contrario vengano uccisi, diserbati. La quarantena lo ha fatto capire in modo limpido: se non ci sono prospettiva e certezze per il futuro, se non c’è spazio per iniziative, idee o relazioni umane, come si può pensare che noi giovani nutriamo quell’entusiasmo necessario per affrontare la vita e i problemi che affliggono il mondo odierno? La società e i cambiamenti che la interessano hanno origine dai giovani.
quindi da alunni e studenti. Di conseguenza la scuola gioca un ruolo vitale per cambiare il mondo.
Cosa fare dunque per migliorare le cose?.
Non credo che ci sia l’esigenza di veri e propri stravolgimenti nel sistema o nel regolamento scolastico, ma piuttosto noto la necessità di attuare un cambiamento nel metodo d’insegnamento, nell’organizzazione degli istituti e in parte anche nell’attitudine di noi ragazzi. Al contrario di come molti pensano, ritengo che il criterio valutativo tramite voto non sia del tutto inappropriato; quest’ultimo però dovrebbe essere accompagnato dalle relative motivazioni che pongano l’accento sulle potenzialità dello studente, sui progressi fatti o su eventuali mancanze da colmare.
Immagino una scuola che assomigli a un contesto sportivo.
Ciò che ora manca è la motivazione e il riconoscimento vero e partecipato degli obiettivi raggiunti. Nello sport gli atleti sono seguiti in modo parzialmente individuale e ogni personalità ha modo di essere valorizzata in base al proprio percorso. La competizione è certo importante, ma essere consapevoli della propria crescita personale è “essenziale” per dare il massimo. Se ripenso a tutto il mio percorso fra i banchi, non saprei ricapitolare quali sono stati i miglioramenti o i successi da me conseguiti e durante l’anno sono scarse le occasioni di “lancio” di obiettivi da raggiungere e di “bilancio” dei progressi fatti: si preferisce sostituire questi preziosi momenti con le tanto temute verifiche o interrogazioni, di cui poi però spesso non si è mai del tutto soddisfatti – o, forse peggio, se si è soddisfatti è più per il voto che per il traguardo conquistato. Sempre inerentemente al paragone sportivo, la tanto famigerata “ansia” per il voto dovrebbe essere percepita da noi ragazzi come vera e propria “adrenalina”, quella stessa adrenalina che anima gli atleti prima di una gara, depurata dalla bloccante paura che invece è propria del contesto scolastico. È giusto dare importanza ai momenti di esame ed essere consapevoli dei propri limiti, ma come può un ricercatore sviluppare un proprio brevetto o un imprenditore fondare un’azienda o investire in borsa se ha paura di sbagliare? Insegnare ad affrontare il rischio con mente lucida, ma contemporaneamente riponendo fiducia nelle proprie capacità, non è una delle prerogative della scuola italiana.
Tutti questi cambiamenti, che puntano soprattutto su aspetti che esulano dal noioso insegnamento frontale.
possono sembrare una svolta semplice, perché non prevedono grandi variazioni nell’apparato amministrativo.
tuttavia difficili da realizzare nel concreto se questo nuovo atteggiamento non viene assimilato a tutti i livelli, in modo autonomo, dai vari componenti della macchina scolastica.
Anche se è complicato accertarsi che i professori cerchino di aderire a questa nuova prospettiva basata meno sulla produttività – nel rispetto dei programmi ministeriali – e più sugli aspetti stimolanti delle materie, qualcosa per facilitare il loro compito si può fare. Una soluzione potrebbe essere quella di creare classi più piccole che permettano un approfondimento individuale nel percorso degli studenti e aumentare i finanziamenti statali per rendere attuabili uscite didattiche o incontri significativi; quest’ultimi rappresentano occasioni non solo di conoscenza diretta del mondo fuori dalla scuola, ma anche di stacco rigenerativo dal monotono studio limitatamente teorico. Per quanto riguarda invece il rapporto studenti-insegnanti, una maggiore vicinanza grazie a classi di numero minore permetterebbe incontri individuali fra le due parti per individuare gli aspetti dell’apprendimento ancora da limare. Da questo punto di vista c’è già stato forse un miglioramento in seguito al periodo di didattica a distanza: con la necessità di creare classi virtuali e costruire un dialogo da remoto, la scuola si è adoperata per esplorare il mondo via internet e ha potuto espandersi su diverse piattaforme digitali molto funzionali per comunicare e apprendere. Oltre alla condivisione rapida, comoda ed ecologica di documenti che integrano i contenuti dei libri di testo, il dialogo con gli insegnanti, anche individuale, si è fatto più vivace e costruttivo.
Concludendo, attività e iniziative extrascolastiche, motivazione, dialogo, metodi frizzanti di insegnamento che guardino al futuro degli studenti sono ciò su cui si deve puntare. Alcuni di questi aspetti sono già stati adottati da una piccola parte degli insegnanti, ma si può fare di più.
Serve però l’impegno di tutti, perché, aimè, la paura tipica di un insegnamento più antiquato avrà sempre la meglio sull’entusiasmo. La scuola, arenata nelle stesse sabbie da anni, non gode certo di buona fama per quanto riguarda progresso e rinnovamento, ma questi sono cambiamenti che devono partire dal basso, questa dev’essere una piccola rivoluzione che parte da noi.
Davide Romanello quarto anno – Liceo Galileo Galilei (Selvazzano, Padova)

Andrà tutto bene?
Questi anni di pandemia sono stati duri per tutti, ma penso che per noi ragazzi siano stati ancora più pesanti che per gli adulti.
Scoprire da un giorno all’altro di non poter più tornare a scuola, magari rendendosi conto di avere dimenticato nell’armadietto il dizionario o la felpa, di non aver salutato a dovere qualcuno, è stato piuttosto traumatico.
Rimanere chiusi in casa per tre mesi, durante i quali l’unico contatto con gli altri erano le videochiamate è stato veramente difficile! «Andrà tutto bene». Ah sì? Cosa è andato bene?.
Come studente mi aspettavo che questo periodo potesse essere utile, un campanello d’allarme per riflettere su cosa non andava nell’ambiente scolastico.
Dal mio punto di vista avrei rivisto in primis i programmi.
da sempre causa di pressione e ansia per professori e ragazzi.
Quando capiremo che sviluppare negli studenti competenze utili nella vita è più importante di riempire i loro cervelli di informazioni di dubbia utilità fino a farli strabordare? Quando decideremo di allinearci al resto del mondo? Anche perché, qual è il senso di strapreparare gli studenti per poi vederseli scappare all’estero appena finita l’università, alla ricerca di un paese in cui il loro impegno potrà finalmente essere riconosciuto e premiato?
Da questo avrebbe potuto conseguire una maggior quantità di tempo libero: senza l’ansia di dover arrivare a un certo livello di conoscenze entro l’anno, tutto avrebbe potuto essere preso con più tranquillità, dando a tutti la possibilità di trovare del tempo per attività al di fuori della scuola, dallo sport, tanto decantato durante il lockdown, a una semplice uscita con gli amici… Diciamo che fino a quando a un «Prof, in queste settimane stiamo studiando tantissimo.
non facciamo neanche a tempo ad andare in palestra e finiamo di studiare dopo cena» mi sentirò rispondere «È giusto che sia così, studiare è il vostro dovere», le speranze sono abbastanza vane.
Scrivendo infatti mi viene da ridere anche solo per aver pensato a una possibilità del genere: «Ne usciremo migliori, più uniti e più forti». Purtroppo, come al solito, questa previsione si è avverata solo per alcune persone, quelle che già prima della pandemia erano più sensibili, empatiche e attente ai bisogni altrui. Per tutti gli altri (la maggior parte purtroppo) il lockdown è servito per risparmiarsi qualche ora di lezione e le prove di recupero ad agosto (e non parlo solo dei ragazzi).
Marta Sartorello quinto anno – liceo Galileo Galilei (Selvazzano, Padova)

Giovanni Realdi

insegnante di storia e filosofia.
liceo scientifico statale “G. Galilei” Selvazzano Dentro (PD).
componente la redazione di madrugada