Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo
Dare il voto ai presidenti
Premessa necessaria: questo non è un toto presidenti. Per questo ci sono i super esperti, anche se l’elezione di un presidente della repubblica in Italia assomiglia all’elezione di un papa in Vaticano. È materia complicatissima, adatta più ad aruspici e indovini che a politologi e scienziati della politica. Com’è noto, nessuno di loro è mai riuscito ad azzeccare in anticipo il nome vincente.
Niente pronostico quindi, del resto quando leggerete questo diario il quadretto del 13° presidente della repubblica sarà già appeso in tutte le aule, negli uffici, nelle caserme dei carabinieri.
Dare però un voto ai presidenti passati (o almeno agli ultimi) non è un esercizio inutile.
Con l’avvertenza che il mio giudizio potrebbe non concordare con il vostro. Cominciando dall’ultimo, Sergio Mattarella, di antico ceppo democristiano, misurato, attento, democratico, affabile, quasi affettuoso nella sua apparente timidezza e legnosità. Sergio Mattarella merita un 8 1⁄2. Giorgio Napolitano, di antico ceppo amendoliano (comunista di destra), molo investito della parte, quasi regale, esperto di tutte le regole e dei giochetti parlamentari e di partito. Comincia bene il suo settennato, deborda sempre di più, fino a trasformare un rospo qualsiasi, il famigerato Monti, in senatore e presidente del Consiglio. Infine, per servire lo Stato e per sua propria ambizione, si fa rieleggere presidente. A Giorgio Napolitano un 7–. Per Carlo Azeglio Ciampi (per me il più grande presidente della nostra storia repubblicana) il voto è un 10 tondo tondo. Partigiano, con radici in Giustizia e Libertà. È lui che ha aperto le porte del Quirinale al popolo, è sotto la sua presidenza che gli italiani si sono sentiti per l’ultima volta di essere un popolo.
E forse sarebbe meglio fermarsi qui, perché tornando al XX secolo i voti si abbassano decisamente. Oscar Luigi Scalfaro 5 1⁄2, un democristiano furbo nelle vesti di un prevosto di campagna; al gladiatore e picconatore Francesco Cossiga un 3 senza se e senza ma.
Una boccata di ossigeno, Sandro Pertini 7 1⁄2, per amore e stima del suo grande passato. Un’altra vergogna: Giovanni Leone 4.
Se ci salva un presidente-papa
Ecco quindi, da questo giochino dei voti, una prima conclusione.
In un terzo millennio che, dall’attentato alle Torri Gemelle alla pandemia più feroce degli ultimi 100 anni. Passando per governi e governicchi di svariati e intercambiabili colori, con un’Italia spazzata dai venti del berlusconismo, del renzismo e dei vari populismi.
In un Paese fiaccato da 10 anni di una crisi economica devastante, dove i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Con una politica sempre più lontana dai cittadini. Con uno Stato e una giustizia sempre meno credibili e meno rispettati.
Con un popolo dove è cresciuta l’intolleranza, il razzismo verso lo straniero, l’odio contro il diverso, la violenza sulle donne…
Con tutto questo – c’è da chiederselo – come ha fatto la povera Italia, non tanto a rimanere “una e indivisibile”, ma a continuare a essere una “Repubblica democratica”? Come abbiamo fatto a non disfarci in dieci pezzi? La risposta è solo in quei tre nomi: Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano, Sergio Mattarella. Non so ora chi sarà il prossimo presidente, uomo o donna, della nostra Repubblica. Posso sperare che anche questa volta, dalle alchimie di partito e dai veti incrociati – o da un qualche Spirito Santo – venga fuori dall’urna un altro salvatore della patria, un primus inter pares che rappresenti il buono e il bene che ancora esiste e resiste, una persona che possa rappresentare ognuno di noi e rappresentarci davanti all’Europa e al mondo.
Se però, come speriamo, la fumata ci sarà ancora favorevole, nessun presidente-papa potrà salvare in eterno il nostro Paese da un declino di civiltà che pare inarrestabile. Senza politica, senza idee, senza ideali (e qui oggi stiamo, esattamente) nessuno crederà più nell’Italia. Neppure noi stessi.
Saltato il bonus psicologi
Neppure quest’anno ho provato a leggere la Legge finanziaria 2022. Districarsi in quella selva di articoli, commi e sotto commi, emendamenti e sub emendamenti, è un’impresa al di là dell’umano. So però che la fatidica “manovra” viene votata in via definitiva negli ultimi giorni dell’anno. E che in quel malloppo si riuniscono in una “tela arlecchino” tutti i desiderata dei partiti politici e delle potenti e spesso contrastanti lobbies economiche. Chi è più forte, chi ha più alleati, chi riesce a nascondersi meglio dentro un articolo (che magari parla di tutt’altro) viene finanziato con pochi o tanti milioni di euro. I più deboli, i meno referenziati, vengono cassati. Sarà per l’anno prossimo…
Non a caso le settimane che precedono l’approvazione (sempre in extremis) della manovra sono chiamate con un grazioso nomignolo, “l’assalto alla diligenza”. Perché, come ci insegnano i western, è nella diligenza che ci stanno i soldi.
Personalmente non avevo desiderata da esporre. O ne avevo talmente tanti che la manovra sarebbe stata da riscrivere da capo.
Tanto vale astenersi. Sennonché, ai primi di gennaio telefono a un amico non proprio “in forma”. Da molti anni soffriva di crisi di panico e la clausura e la follia della pandemia avevano peggiorato la sua condizione. Così aveva deciso di non uscire più dalla sua camera. Poi una luce: il mio amico aveva finalmente accettato di andare da un terapeuta, un bravo psichiatra che gli aveva consigliato una comune amica. Peccato che il mio amico e la sua famiglia viaggino abbondantemente sotto la soglia di povertà.
E peccato che nella Legge di Bilancio, proprio l’ultimo giorno, sia stato cancellato il “bonus psicologi”, un’agevolazione pensata per chi ha bisogno di supporto psicologico, anche alla luce delle conseguenze della pandemia, ma non può permetterselo. Il budget richiesto non era neppure esorbitante, 50 milioni di euro. Mi è rimasta una curiosità: chissà chi se li è presi quei 50 milioni di euro.
Avere lo sguardo di Gianni Celati
A volte la notizia di una morte illustre, invece di molte e importanti parole di lode e di cordoglio, ti suggerisce un piccolo pensiero privato. È quello che mi è successo quando le agenzie hanno battuto la morte di Gianni Celati. Grande, grandissimo scrittore, l’ultimo del nostro Novecento. E molto altro: docente di letteratura inglese a Bologna e a Providence, attentissimo traduttore (al “suo” Ulisse, una delle sue ultime fatiche, lavorò sette anni). Curioso dei particolari e del tutto, “guardatore” di molti mondi: dalle condizioni di luce sulla via Emilia, al Grande Fiume che arriva a mescolarsi al mare, all’Africa, alle sue lingue e ai suoi enigmi. Camminatore per vocazione e per stile, alla ricerca di luoghi, uomini, gesti, miraggi e apparenze.
Invece, o appena prima di pensare a questo e a tanto altro, ai suoi libri così unici, stranianti, “superficiali” e profondi, a questo grande scrittore e grande uomo. Prima di tutto questo, ho provato un dolore privato, perché il mio desiderio era morto per sempre.
Morto insieme a lui.
Da sempre – ero un ragazzo e già leggevo Le avventure di Guizzardi – avevo il pensiero, il pallino, la certezza che prima o poi lo avrei incontrato. No, niente intervista. Mi sarei seduto a un tavolino di un bar Sport, a Ostellato, o Mezzogoro, a Sandolo, o davanti alla Sacca di Scardovari. Lui avrebbe parlato e io ascoltato; mi avrebbe indicato col braccio gli oggetti vicini e domestici, le “case geometrili”, il silenzio intatto del Fiume. Mi avrebbe parlato dei suoi incontri, di Pino, di Rosanna, di quella donna anziana che un po’ assomigliava a sua mamma. Di quel pensiero che proprio quel mattino lo aveva visitato. Sono le ultime righe di Verso la foce, siamo arrivati alla sacca di Scardovari, davanti si vede il mare. Scrive Gianni Celati: «Se adesso cominciasse a piovere ti bagneresti, se questa notte farà freddo la tua gola ne soffrirà, se torni indietro a piedi nel buio dovrai farti coraggio, se continui a vagare sarai sempre più sfatto. Ogni fenomeno è in sé sereno. Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo».