Ascolta: un paese vive se c’è chi ci vive

di Angelini Massimo

Con le parole di Massimo Angelini – che ringraziamo per averci donato un suo testo prezioso 1 – inizia una nuova rubrica di madrugada. L’obiettivo de i paesi di domani è duplice. Da una parte dar voce a chi contribuisce a far vivere borghi e colline, tradizioni e comunità. Dall’altra sviluppare anticorpi verso mode o pratiche che si rivelano avulse dai contesti che proclamano di voler rianimare.
Davide Lago

Paesi che sopravvivono
La montagna che si popola in estate e che nell’inverno diventa ospizio è un luogo triste. I paesi che sopravvivono per il riposo e il divertimento dei cittadini o come nicchia delle loro nostalgie sono luoghi tristi. Se non c’è chi ci vive e ci produce, va bene che si spengano: lo ha deciso chi se n’è andato via e chi ne amministra l’agonia, ma lo decide anche chi si rifugia nei ricordi e tra i ricordi smarrisce il proprio tempo.
Perché la nostalgia è un’infezione dell’anima, una malattia sottile che colpisce chi è stanco o ha paura.
La voglia del passato tante volte è voglia del ricordo che ne abbiamo costruito, trasfigurato e reso più gentile dalla distanza.
E scrivere la storia, in fondo, è solo un altro modo per raccontare il presente, perché, prima di ciò che è successo, la storia parla di chi la scrive e di quelli ai quali è destinata.
Vorrei incoraggiare a non rimpiangerlo, il passato, a pensare che tutto è presente, è compresente, insieme e in questo momento, ed è presente chi è vissuto prima di noi. E chi è vissuto prima di noi non si trova nei cimiteri, lì sono solo poveri resti, poco più di nulla.
Guardati intorno: nella filigrana dei monti, ovunque puoi vedere ancora boschi e fasce terrazzate e prati; se dài uno sguardo distratto forse non te ne accorgi, ma con un poco di attenzione li leggi dappertutto, intrecciati nel tempo come i fili di un tessuto dal lavoro di questa comunità. Guardali questi monti. I boschi, le fasce terrazzate e i prati che ne disegnano la forma, come gli edifici, non esistono in natura: sono costruzioni, sono manufatti.
Sono fatica, conoscenze, rabbia e vita di chi è vissuto prima di noi e in quei manufatti continua a vivere, come vive nei nostri visi e nei nostri comportamenti. Il viso dei morti è nel nostro viso, il loro carattere è nel nostro carattere, così il loro lavoro e il loro sapere sono nella forma della terra che ci hanno lasciato. Ci sono ancora e ci sono tutti, perché, in fondo, non si muore, ma ci si libera nel presente e si continua a vivere sotto forme diverse.

Sotto forme diverse, ci siamo tutti
Chi è vissuto prima di noi vive nei saperi tramandati e in tutto ciò che testimonia il tempo, vive nelle consuetudini come nei riti, nelle case come nelle fasce che ha costruito, conservato e tramandato.
E allora, quando portiamo fiori sulle tombe e intanto lasciamo crollare le fasce abbiamo uno strano modo di onorare i morti. E noi stessi.
Questa non è retorica, ma arte della cautela, senza la quale si rischia di mettere il passato su un altarino e di diventarne i chierichetti. Si rischia di dire banalità su come era bella o come era brutta la vita di una volta, senza capire che queste sono solo nostre proiezioni. Si rischia di rimpiangere ciò che non c’è più (c’è tutto, ma in forme diverse) e di lamentarsi che non c’è più niente da fare. Si rischia di giustificare la rassegnazione. Oppure la pigrizia.
Quando parliamo della terra, delle comunità rurali e di questa montagna, la nostalgia non serve: lasciamola da parte e lasciamo da parte tutto ciò che ne è imbevuto.
Forse vorremmo che la montagna continuasse a vivere – a parole, tutti lo dicono – ma che si sta facendo perché sia così?

Mi guardo intorno…
… E vedo che si moltiplicano le sagre, dove di “sacro” c’è nulla, secondo una moda che si è imposta negli ultimi dieci/vent’anni.
Qualche volta sono feste della comunità, purtroppo spesso sono i giochi di società che i villeggianti organizzano, sempre in estate, per loro stessi e per rimediare alla noia. A volte sono anche parodie del tempo e carnevali seriosi di tradizioni inventate, travestimenti e cortei mascherati.
Vedo che si fanno musei piccoli e grandi, raccolte di oggetti senza contesto o ristrutturazione di edifici che non servono a nulla se non a dare spettacolo di sé stessi. Oppure si allestiscono spazi e percorsi guidati – li chiamano anche ecomusei o parchi tematici – per addomesticare il territorio all’uso dei turisti, per farne oggetto di godimento estetico e regno del tempo libero.
E così si moltiplicano le spese in consulenti, pubblicità, guide, cartoncini illustrativi e cartelli stradali: il denaro pubblico dà sollievo alla disoccupazione intellettuale; qualche cittadino si diverte o si emoziona di fronte all’abbandono che non capisce; intanto la montagna continua a spopolarsi e da qualche parte, dietro alle finestre, si mettono manichini.

Cosa serve perché i paesi vivano?
Serve che ci si viva. Che ci siano meno villeggianti e più abitanti: il lavoro a volte non è vicino, ma oggi è un prezzo così alto fare i pendolari, diciamo fino a un’ora, per andare al lavoro? Forse per mantenere in vita la propria terra si può fare. Allora se nei paesi la gente comincerà a viverci, ci sarà più forza per chiedere che la strada d’inverno sia mantenuta pulita, e che dove ci sono bambini si riaprano le scuole, e avrà senso chiedere di restituire gli uffici postali e i servizi sanitari e le linee delle corriere, e forse ci potrà essere interesse ad aprire qualche bottega, oppure a non chiuderla.
E bisogna che le botteghe nei paesi possano restare aperte senza essere schiacciate dal peso delle norme fiscali e da norme igieniche astratte.
Poi servono persone che facciano gli amministratori pubblici per servizio, solo per servizio, e che siano migliori di quelli che li votano e non peggiori, e che qui ci vivano. La terra non ha speranza di vivere quando è amministrata da foresti, incompetenti, narcisi, falliti della politica o cialtroni che all’interesse della comunità fanno precedere quello personale o quello del clan.
E serve che si rompa l’isolamento e che sia incoraggiata ogni occasione buona per fare comunità, per stare e fare insieme: la festa (d’inverno, prima che d’estate!), la banda del paese e le musiche, il ritrovo per giocare e parlare e insieme vedere la televisione, i lavori condivisi, la gestione e la manutenzione collettiva degli spazi comuni, dell’acqua e delle strade.
Poi serve che si torni a fare produrre la terra e il bosco, per tanto o per poco, per lavoro o per passatempo, per fare commercio o anche solo per l’orto di famiglia.
E serve che i ristoratori e i negozi preparino e vendano il più possibile i prodotti locali, la carne degli allevamenti che tengono in vita i pascoli, le acque minerali più vicine.
E bisogna fare in modo che chi lavora su questi monti possa farlo in pace, senza l’aggravio di oneri, registri, carte, controlli. E che i diritti comunitari sulla terra e le sue risorse siano preservati e sia interrotto il processo di liquidazione delle terre comuni e degli usi civici.
È una cosa nobile recuperare la memoria, è bene farlo senza cedere alla nostalgia, ed è importante recuperare le musiche, le varietà agricole, le case e le ricette; ma ciò che, soprattutto, bisogna recuperare è la comunità, quella degli abitanti, quella di tutti i giorni, nel bello e nel cattivo tempo.
La montagna può tornare a vivere!

1 Massimo Angelini, Minima ruralia, Pentàgora, Savona 2013, pp. 143-147.

Massimo Angelini

direttore editoriale delle edizioni Pentàgora