Il sapore dolceamaro dell’irripetibile Novecento
Se mai un sostantivo possa essere giocato per descrivere nel modo più efficace possibile il Novecento, questo potrebbe essere “contraddizione”.
In fin dei conti il Novecento ha rappresentato, a suo modo, l’esplosione di un contrasto logico e storico che mai nella storia dell’umanità si è realizzato così drammaticamente.
È stato un secolo ferocemente nutrito di uno scontro dialettico irripetibile, là dove, nel destino dell’umanità, si sono incrociati tutti gli opposti più importanti in modo quasi sanguinoso: la libertà e l’oppressione, la democrazia e i totalitarismi, la giustizia sociale e lo sfruttamento, la pace e la guerra, lo sviluppo scientifico-tecnologico e la brutalità dell’arretratezza, il senso del trascendente e la sua negazione.
È stato, sì, un secolo veloce, rapido, apparentemente breve.
Il saggio geniale e intriso di pessimismo di Eric Hobsbawm, intitolato appunto “Il secolo breve”, ha descritto efficacemente, come in un dipinto a tinte forti, questa corsa a perdifiato verso il futuro, quest’irruzione irrefrenabile verso lo sviluppo, ma anche questi contraccolpi apocalittici verso l’annullamento di ogni conquista di umanità.
Hobsbawm ha classificato cronologicamente tre età che hanno marcato il XX secolo: quella della catastrofe delle guerre e dei totalitarismi tra il 1914 e il 1945, quella dell’oro nel dopoguerra tra il 1945 e il 1973 e quella della frana, con l’inizio di molte crisi, dal 1973 al 1991. In queste scissioni violente tra diverse età c’è l’asprezza di un secolo scisso in sé stesso, dove sovente non è possibile trovare un termine di riferimento assoluto, nel bene e nel male.
In ogni caso dal Novecento riceviamo un’eredità irripetibile e davanti a questo secolo abbiamo l’opportunità di sfruttare le occasioni straordinarie che ci sono state consegnate. Mai come nel XX secolo la democrazia, nelle sue articolazioni liberali e socialdemocratiche, si è radicata non soltanto in ambito politico e socio-economico, ma anche culturale e psicologico-collettivo. Mai come nel Novecento l’anelito alla giustizia distributiva ha trovato un compimento così diffuso. Mai come nel Novecento le occasioni di crescita e di tutela della dignità umana hanno generato comunque una consapevolezza planetaria. Mai come in questo secolo l’uguaglianza si è affermata nelle tensioni ideali di milioni di esseri umani.
Resta da chiedersi il perché della durezza di questi ultimi anni, figli del secolo passato, e soprattutto restano da indagare le ragioni dell’odierno attacco aperto e inequivocabile alle conquiste del Novecento, a partire dalla stessa funzione e ragione della democrazia e dello stesso ruolo della pace.
È franato davvero il mondo generato dal “secolo breve” o è scattato il meccanismo perverso che non ne ha accettato il valore? Davanti a questo interrogativo non potremo restare indifferenti né tantomeno potremo lasciare dilagare il rimpianto di un secolo veemente ma, anche per questo motivo, irripetibile.
Indietro non si può né si deve tornare, ma soprattutto indietro non si può né si deve guardare.
«Non chiedere come mai i tempi antichi erano migliori del presente. Questa domanda non è ispirata a saggezza» (Qo 7, 10-11).
Perfino la sapienza biblica suggeriva di non guardare a un passato ideale, ancorché apparentemente luminoso.
Tuttavia, è proprio dalle contraddizioni del Novecento, attraverso le quali siamo cresciuti e ci siamo purificati, che potremo recuperare un futuro denso di bellezza.
Riflettere su ciò che è stato il Novecento lascia certamente un sapore dolceamaro, dà anche una sensazione di irripetibilità, ma garantisce pure la capacità di leggere il futuro dentro la prospettiva dell’umanità. Quella vera, quella concreta, quella bella e giusta che il XXI secolo non può perdere.