Regioni sì, regioni no

di Cortese Fulvio

Un dibattito troppo polarizzato.
In questo lungo e tuttora drammatico periodo di pandemia da covid-19 si levano da più parti critiche forti e ripetute sull’inefficienza delle regioni e sulle gravi lesioni che tale situazione comporterebbe per la salute dei cittadini. Di più: per molti osservatori sarebbe in gioco un urgente problema di eguaglianza, visto che le differenziazioni territoriali, lungi dall’apparire come proiezione di una ragionevole articolazione di servizi e funzioni, si concreterebbero in fattori di insopportabile discriminazione. Sul punto, non manca chi, anche autorevolmente, propone un deciso superamento della regionalizzazione in materia sanitaria, se non del regionalismo globalmente inteso.
Si tratta di un’opinione che ciclicamente si ripresenta, e che dovrebbe far riflettere molto di più di quanto non si stia facendo. Perché è un’opinione che costringe la discussione nella cornice di interrogativi ultimativi e radicali: regioni sì o regioni no? Hanno ancora senso le regioni? Non è meglio rafforzare lo Stato? Non è forse vero, anzi, che la dimensione di talune questioni e la trasversalità di molti bisogni sociali impone azioni di governo a livelli “più alti”? Non è che questi dubbi non abbiano delle visibili giustificazioni: è fin troppo evidente che sul piano regionale la gestione dell’emergenza pandemica ha lasciato spazio a errori logistici, improvvisazioni personalistiche, protagonismi politici, polemiche sterili, rimpalli di responsabilità. Ma bisognerebbe chiedersi se un pari approccio non si sia riscontrato anche sul piano statale; o se, ancor più a monte, tante delle irrazionalità cui si assiste in merito alla gestione della crisi sanitaria non siano dovute a un condizionante e clamoroso problema di approvvigionamento, unito a un altrettanto sorprendente problema di comunicazione istituzionale sul regime di utilizzabilità di taluni vaccini. A quest’ultimo riguardo, a ben vedere, non paiono indifferenti neppure le manchevolezze delle strutture organizzate dell’expertise scientifica, sul piano nazionale come su quello europeo. Dovremmo, su questa sola base, porci il quesito “scienza sì, scienza no”? Il fatto è che con la pandemia si è tornati alla configurazione binaria e semplicistica di un dibattito fin troppo polarizzato. Come se le Regioni impersonassero necessariamente il male e lo Stato, viceversa, rappresentasse inevitabilmente il bene. Eppure, al pari di tutti coloro che sono consapevoli degli inganni cui portano le contrapposizioni così nette, occorrerebbe dubitare di una discussione in tal modo impostata. Tanto più se condotta in situazioni particolari, nelle quali lo stress istituzionale è naturalmente forte e tende, in larga parte comprensibilmente, a immediate soluzioni di sintesi.

Il complesso dell’eguaglianza.

Sul banco degli imputati, in verità, dovrebbe sedere, anziché il sistema regionale, la scarsa, o immatura, consuetudine italiana con i problemi dell’eguaglianza. Con ciò si allude, in particolare, alla radicatissima e diffusissima convinzione – cui è spesso incline anche il ceto intellettuale e buona parte della cd. classe dirigente – secondo cui soltanto lo Stato può essere il vettore dell’eguaglianza (oltre che dell’efficienza).
Al carattere sempre verde di tale visione è sicuramente sinergico il lascito sotterraneo delle “proporzioni” che, sul modello dell’amministrazione francese, i giuristi hanno elaborato all’inizio del XX secolo, inscrivendole nel DNA del Paese, e per le quali in tanto i cittadini sono eguali in quanto anche il potere pubblico assuma nei loro confronti sempre il medesimo volto. È la ricostruzione dell’eguaglianza come dato esclusivamente formale.
Tuttavia, la fallacia di questa teorizzazione è fin troppo nota: perché se a essere diversi sono in primo luogo i cittadini, la loro eguaglianza necessita un intervento differenziato; e perché, ancor prima, se si vuole che il potere pubblico presenti un unico e riconoscibile e costante lineamento, allora è necessario che esso sia diversamente presente sui territori regionali e locali, a seconda dell’intensità con cui la sua immagine viene o meno percepita.
Tale è la configurazione progressiva dell’eguaglianza sostanziale.
Un simile assetto era – e resta – l’obiettivo che la Costituzione del 1948 ha introdotto sul piano della forma di Stato. Si voleva, cioè, realizzare un cambiamento nel quale l’articolazione territoriale servisse alla Repubblica per “riunire” i “diversi”, coinvolgendoli nell’attuazione di un disegno di emancipazione che è e dev’essere comune in quanto plurale, e che pertanto deve potersi apprezzare nell’amministrazione continua, ma articolata e partecipata, di ampi e cruciali settori della vita sociale, politica ed economica.
È un disegno profondo, tradotto in un principio fondamentale, quello autonomistico, per il quale – con un precetto tuttora cogente – è lo Stato a dover adeguare «i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» (art. 5 della Costituzione). Si può davvero capovolgere questa prospettiva?


Il complesso dell’identità.
È anche doveroso ammettere, da un differente punto di vista, che l’altra faccia degli equivoci derivanti da una mal digerita questione di eguaglianza è una patologia che affligge da molto tempo il discorso sulle autonomie. Se è vero, cioè, che c’è scarsa consuetudine su che cosa significhi essere uguali, è altrettanto vero che c’è scarsa coscienza di che cosa significhi essere diversi e di come tale diversità possa essere “agita”.
Come si è cercato di spiegare poc’anzi, il valore del ruolo di regioni ed enti locali, o del pluralismo territoriale generalmente inteso, può essere bene compreso e assimilato soltanto all’interno di un significato più ampio: di una versione politico-istituzionale, che ne giustifichi e ne dimostri l’utilità e l’importanza per la vita effettiva e per la quotidianità delle relazioni sociali, economiche e culturali. Che ne dimostri, in altre parole, l’intrinseca valenza costituzionale.
Eppure, nel corso degli ultimi trent’anni, il dibattito pubblico sulle autonomie è passato dalla configurazione delle stesse quale luogo privilegiato di amministrazione, e così di immediato contatto tra cittadini e istituzioni (in un movimento circolare che avrebbe dovuto contribuire a legittimare le seconde per mezzo della loro “apertura” ai primi), a luogo di riconoscimento aprioristico di specifiche identità, spesso di nuova o artificiosa “produzione”, e al contempo protese a trasformarsi in “piccole patrie” da coltivare e difendere sempre e comunque.
Con ciò si può verificare che sono proprio le stesse autonomie, in questa loro ultima percezione, a concepirsi, se non a istituirsi, come elementi di disaggregazione, come tali in “antagonismo” con altri livelli di governo e, tanto più, con l’idea stessa di un ordinamento repubblicano quale insieme, pur doverosamente composito, di realtà tanto ragionevolmente differenziate quanto tra loro coordinate.
Si potrebbe anche aggiungere – ma è una notazione, se si vuole, eccentrica – che questa tendenza alla dissimilazione istituzionale si accompagna assai bene alla radicata e pari tendenza alla dissimilazione culturale e sociale: non c’è dubbio che, in molti casi, la moltiplicazione delle diversità costituisce un alimento del pluralismo cui anche la Costituzione guarda come a uno dei valori fondativi e irrinunciabili; ma è altrettanto facile constatare che il dato sensibile non è un simile pluralismo, bensì la dissociazione che si crea nella coltivazione di identità che esigono riconoscimento solo sulla base di una percezione puramente autoreferenziale. In altri termini: di identità che si percepiscono come irriducibili a qualsiasi cambiamento se non in forma di pura reciprocità, e che – dato di ancor più semplice accertamento – possono accedere rapidamente alla soddisfazione di molti bisogni per il tramite dei canali (oramai del tutto de-territorializzati) del mercato o, meglio, del “consumo”. È una tendenza che riguarda qualunque discorso sull’identità, tanto che si potrebbe affermare che quello che così si è formato sull’identità individuale finisce per condizionare ed “esaltare” un pari discorso sull’identità territoriale, che, allo stesso modo, perde ogni riferimento relazionale e collettivo a favore di una dimensione di pura autosufficienza e di correlata “pretesa”.

Tornare alla logica del progetto.

Se la Repubblica non può rinunciare alle autonomie, e se, parallelamente, è pure necessario che queste non coltivino identità esclusivamente “autocentrate”, bisogna porsi un quesito cruciale: che cosa, oggi, è davvero suscettibile di un’amministrazione così articolata e differenziata? La logica della segmentazione materiale delle competenze – come è stata sperimentata finora – è adeguata a “organizzare” in modo efficiente questa articolazione? Non è forse vero che l’attuale assetto del Titolo V della Costituzione, pur formalmente idoneo a rappresentare virtuosamente un potenziale protagonismo regionale e locale, ha largamente veicolato l’affermazione di un opposto protagonismo statale, foriero di inediti conflitti? Non si può certo ritenere che quello dello Stato sia un attivismo sempre e del tutto irragionevole: in molti casi, è stato “spiegato”, anche dalla Corte costituzionale, come una sorta di spontanea esigenza, maturata dalla “natura della cosa”. Ma se ciò è vero, allora è opportuno riconoscere che il dato formale del testo costituzionale non corrisponde più al dato reale delle istanze che reclamano soddisfazione. Un’ulteriore e forte motivazione della polarizzazione del dibattito pubblico origina proprio da qui: dalla sensazione che vi siano dei “moti costituzionali” che non si sono ancora tradotti in vere “trasformazioni”; e che vi sia, dunque, un corpo andato rapidamente fuori taglia, rendendo, così, del tutto inadatto il vestito che per esso era stato disegnato.
A fronte di un tale quadro, è indispensabile riprendere senza timori la logica del progetto, dell’attuazione di un disegno complessivo, costituzionalmente fondato. E se per fare ciò si rendesse necessario modificare la Costituzione vigente, è opportuno che questa direzione venga percorsa con maggiore consapevolezza di quanta non si è manifestata in occasione del fallimento della riforma del 2016. Probabilmente, ciò che nemmeno i giuristi sono riusciti a razionalizzare in quell’occasione diventerà passaggio obbligato allorché la Repubblica dovrà affrontare le grandi sfide del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Perché è solo riscoprendoci come comunità variamente impegnata a realizzarlo che saremo in grado di sentirci più eguali e meno autoreferenziali.

Fulvio Cortese

professore ordinario di diritto amministrativo

preside della facoltà di giurisprudenza, università degli studi di Trento