L’alba dietro le case si scalda

di Cifelli Adriano

Imparare a sperare nella vita che si ricompone

«La cosa più superba è la notte,
quando cadono gli ultimi spaventi
e l’anima si getta all’avventura.
Lui tace nel tuo grembo
come riassorbito dal sangue,
che finalmente si colora di Dio
e tu preghi che taccia per sempre,
per non sentirlo come rigoglio fisso
fin dentro le pareti».
(Alda Merini, La cosa più superba è la notte)

E quando arriva la notte e resto sola con me
la testa parte e va in giro in cerca dei suoi
perché
né vincitori né vinti si esce sconfitti a metà
la vita può allontanarci l’amore continuerà».
(Arisa, La notte)

Sogni diurni
Ho trovato questa espressione molto bella ed evocativa in un libro recente scritto dal direttore generale del Censis Massimiliano Valerii dal titolo La notte di un’epoca.
La notte segna un tempo particolare. Il tempo dell’oscurità fisica, ma talvolta esistenziale.
Spesso si evoca la notte come metafora dei momenti più negativi di una vita. Anche le epoche storiche possono vivere la notte. Che può essere abitata e non sempre corrisponde a solitudine. Ci sono le notti brave, le notti in bianco e le notti che sembrano non finire mai, come attesa di un’alba che spesso tarda ad arrivare. Specialmente per chi è insonne.
La notte è degli amanti e dei disperati, quelli che dormono per strada e che hanno a volte solo un cartone per ripararsi.
La notte ha ispirato film e poesie, libri. Anche nei vangeli ci sono notti che hanno segnato la vita di Gesù. Come non pensare all’amarezza della notte del Getsemani, o la lunga notte verso l’alba di resurrezione. La notte di Nicodemo fatta di domande e inquietudini.
Che luce avrà il nuovo giorno che arriva? Quella di Pietro e del tradimento, l’oscurità in cui Giuda si inoltra dopo aver mangiato il boccone amaro con chi poi avrebbe venduto per trenta denari.
Massimiliano Valerii scrive che il suo è un «libro sui sogni diurni di ognuno di noi. Sono importanti, sono necessari. Sono urgenti. La lunga e profonda crisi ci ha lasciato una pesante eredità. Si è rotto il tacito patto che aveva guidato lo sviluppo per oltre mezzo secolo. L’ascensore sociale si è inceppato: scende, ma non sale».
Come uscire dalla notte se è tale il periodo che stiamo attraversando? Come guardare al futuro senza dipingerlo a tinte scure? Come sperare nel domani senza cadere nella trappola della delusione e del rancore? Ernst Bloch, autore della monumentale opera Il principio speranza, mette al centro, proprio i sogni: «L’importante è imparare a sperare… Quali grandi sogni si sono sempre fatti in proposito! Sogni di una vita migliore, che sarebbe possibile. La vita di tutti gli uomini è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette che si faccia i rinunciatari. Quest’altra parte ha nel suo nocciolo la speranza, ed è insegnabile. Può essere ricavata dagli sgretolati sogni a occhi aperti e anche al loro astuto abuso; può essere attivata senza cortine fumogene.
Non c’è mai stato uomo che abbia vissuto senza questi sogni ma l’importante è conoscerli sempre meglio e così mantenerli verso la direzione giusta, senza che ci ingannino ma in modo che anzi ci aiutino…» (E. Bloch, Il principio speranza, trad. it. di E. De Angelis, Garzanti, Milano 1994).

Il populismo non paga
Guardandoci attorno ci sono segni di speranza. Accanto a molti eventi o fatti di cronaca che lasciano stupiti e attoniti. Il flusso continuo di cronaca di certo non ci aiuta a comprenderne spesso il senso, il filo rosso che li unisce e che rappresenta la mappa per orientarci. Come Francesca, mamma di uno splendido bambino, che guarda con speranza al suo futuro dopo un anno in comunità. Gusta già il suo nuovo percorso di vita con il suo piccolo, come risalita finalmente da un periodo buio ma non definitivo.
I giovani rappresentano di sicuro questi sogni a occhi aperti. Parlando con Stefano, seduti a tavola davanti a un astice al matrimonio di suo fratello, incapaci di capire da che parte prenderlo per poterne assaggiare il contenuto gustoso, quasi una metafora, mi rendo conto che i giovani sono pieni di domande e per nulla banali. Stefano mi chiede del referendum, cosa ne pensassi. Un interessante scambio di opinioni. È bello vedere che la politica continua a interessare ai giovani, anche se essa non si interessa di loro: precari, trascurati, usati, confusi e sedotti, ma poco protagonisti.
Mi arriva anche un sms di mio fratello, giovane anche lui, e mi chiede cosa votare al referendum. Cosa sanno i giovani della politica? Proprio l’ultimo referendum voluto dal movimento politico che più di tutti ha mobilitato giovani verso la politica, ha rappresentato anche una cesura. Il populismo non paga. Il cambiamento sperato non c’è stato. E proprio chi pensava di incarnarlo lo ha tradito. Sono più avanti i giovani, quelli che scendono per strada accorgendosi dei cambiamenti climatici e della sfida sui diritti umani, i giovani delle marce e della testimonianza, talvolta silenziosa, sui diritti LGBT.

Meno stadi, più scuole
Torna prepotente il tema della scuola, importante anche se non unico, luogo dove si può apprendere la grammatica della vita sociale e civile. Dove si legge o si dovrebbe leggere e discutere la carta fondamentale del nostro vivere, la Costituzione. La scuola è passata in secondo piano nei dibattiti e nelle scelte importanti della politica, una cenerentola che deve ritrovare invece la sua scarpina, la sua rotta educativa. Meno stadi e più scuole per non finire nel pallone. Solo dando spazio ai giovani e alla loro formazione eviteremo forse di avere in futuro adulti rancorosi e delusi, che continuano a gestire e sedere sulle poltrone, che non basta tagliare di numero per risolvere il problema. I giovani ereditano una realtà pesante e difficile e forse chiedono solo fiducia per realizzare grandi cambiamenti. I giovani fanno domande prima ancora che aspettarsi risposte preconfezionate e stantie. Nessun catechismo può risolvere la sete di spiritualità e di autenticità che li abita e che si aspetta testimoni e non risposte. Giovani come Nicodemo, che chiedono come rinascere nel buio della notte. Giovani come Willy Monteiro, barbaramente ucciso a Colleferro da altri giovani senza prospettive e pieni di sé, esempio perfetto del prodotto peggiore della nostra società occidentale ormai al tramonto. La storia di Willy è però anche segno di grande speranza. Un giovane pieno di sogni e pieno di vita che non ha pensato troppo prima di difendere il suo amico incappato in una rissa. Willy, morto su quell’asfalto, è come un fiore che nasce dalla crepa e ci dice che anche dal buio si può uscire e si può essere speranza per altri.
Sono certo che nel grembo della storia lo Spirito sia già in azione per generare nuovo futuro, e forse chiede solo meno resistenza per poter agire.
A prescindere da noi, troppo attenti al nostro individualismo, figlio della modernità e poco avvezzi a uno spirito più collettivo.
Così scriveva Giuseppe Stoppiglia in un editoriale di Madrugada del 1997: «In certi momenti sembra che tutto si accanisca, che l’equilibrio di ogni cosa si perda. Poi la vita si ricompone. È la sua forza. È la terapia del tempo. Quando l’attesa diventa senza oggetto si trasforma in disperazione o, peggio, in rassegnazione.
Allora quello slancio che mette avanti il sogno alla realtà, affinché qualcosa si possa realizzare, si spegne, e, quando si spegne un sogno, la notte si fa più buia…».
E allora non resta che sognare, anche a occhi aperti, a non smettere di immaginare e a spingerci fin dove è possibile per allontanare la notte, qualunque essa sia. Essere pronti ad accogliere e gioire per quell’annuncio di alba che è già qua.

Intravedere la direzione

«L’alba è già qua
per quanto sia normale vederla ritornare
mi illumina di novità
mi dà una possibilità».
[ Jovanotti, L’alba]

Strappiamo ogni centimetro alla notte per lasciarla illuminare dall’alba, per lasciarci illuminare, dalla luce calda e tenue, ma non abbagliante dell’alba. Anche il padrone della vigna esce all’alba per chiamare lavoratori. Fino a sera. Chiamando tutti, perché per ognuno di noi deve esserci una speranza, la possibilità di essere chiamati (Matteo 20,1).
«E ora io non so che ore sono, ma so per certo che non è più questione di giustizia ma di pura gratuità il tuo camminare dentro di me. Dentro le mie ombre che pian piano sto imparando a non nascondere più. Io sono ombra. Non sono luce per nessuno. Io sono spazio buono per il Tuo cammino. E non per giustizia ma per resa.
Non per impegno ma per innamoramento» (Alessandro Dehò).
Sto sognando, o forse no… la strada, non chiedetemi la strada, ma il senso, la direzione forse li intravediamo, insieme.

Adriano Cifelli fondazione Arché, Milano