Confinati e sconfinati
Viviamo un tempo che vogliamo addomesticare, brandendo definizioni e aggettivazioni che non riescono a contenere la complessità: un tempocovid, di pandemia, di quarantena, di ‘lockdown’.
In apparenza tanto lungo, ma in realtà racchiuso in un arco di tempo che copre ‘solo’ tre (scarsi) mesi di un’esistenza. Oggi – estate 2020 – sperimentiamo tutta l’insufficienza del nostro vocabolario, che si rivela inadeguato nel fornirci parole affidabili. In molte occasioni si finisce nel rifugiarsi nell’idea di un ‘tempo sospeso’.
Eppure un’elevata intensità sul piano emotivo ci fa percepire un tempo ‘maggiorato’: conserviamo vividi ricordi di dolore e di morte; manteniamo dosi consistenti di paura e di disorientamento, seppure mascherate con comportamenti al limite dell’irresponsabilità; siamo alle prese con una ricerca impegnativa di nuovi equilibri in attesa di un tempo ‘buono’.
In questo tempo inedito, inatteso e inaudito abbiamo sperimentato la simultaneità tra la massima interdipendenza su scala planetaria grazie a un virus cosmopolita e con abitudini globalizzate, e il massimo confinamento nelle proprie abitazioni, riallestite per ospitare una vita quotidiana improvvisamente ristretta e da ripensare.
Le tre trappole
In molte occasioni la logica binaria del ‘prima’ e del ‘dopo’ è sembrata un rifugio sicuro, mostrando però tutta la fatica di ripensare i confini del tempo e l’incapacità di restare ancorati alla possibilità di apprendere dal ‘durante’, che per molti è stato anche un ‘duramente’. Ancora oggi fatichiamo a costruire ‘immunità sostenibili’ dalle trappole di questo tempo. La prima trappola, particolarmente attrattiva, fa riferimento al ‘futuro automatico’ che incorpora una promessa indiscutibile di un futuro sicuramente migliore, come se la sofferenza della quarantena ci renda automaticamente destinatari di una ricompensa che prende le forme della libertà – immaginaria – slegata dai vincoli e dalle responsabilità. La seconda trappola è quella del ‘futuro impossibile’ che rinforza una postura ‘presentista’, ritenuta più promettente rispetto al ‘diritto di godimento’. Infine corriamo il rischio di finire nella ‘voglia di ripristino’ terza trappola – facendo diventare il passato più prossimo, già conosciuto come un tempo di crisi e di aumento delle disuguaglianze, il futuro desiderabile.
Sul confine
In questo contesto denso di confinamenti e di sconfinamenti può ricollocarsi una limitata riflessione sul ‘confine’.
Come acutamente osservato da Franco Cassano, «sul confine , sul limite ognuno di noi, termina e viene determinato, acquista la sua forma, accetta il suo essere limitato da qualcosa d’altro, che ovviamente è anch’esso limitato da noi. Il termine de-termina e il con-fine de-finisce. Questa reciprocità del finire, questo terminarsi addosso è inevitabile e incurabile» 1 .
In questa prospettiva emerge una relazione dialogica tra il confine e l’identità, insieme a un processo dialettico tra chiusura-definizione e apertura-evoluzione.
Il confine può essere immaginato anche come frontiera che «non unisce e separa, ma unisce in quanto separa. Anche laddove le comunità sembrano scavalcare incuranti i confini questi ultimi sono all’opera» 2 . Nello stesso tempo «frontiera, confine, limite, bordo, margine sono anche i punti che si hanno in comune. Con un altro paese si ha la stessa frontiera perché la linea di divisione è anche il tratto in comune che si ha con esso, il luogo dei punti in cui ci si tocca».
Possiamo allora intravedere come «con-fine vuol dire infatti anche contatto, punto in comune […] un confine che unifica e non contrappone, un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine)» 3 .
Ri-conoscere e sentire il con-fine può essere allora una sfida generativa: creare le condizioni per un riconoscimento di ciò che separa e nello stesso tempo di ciò che consente il contatto.
Il tempo d’esodo
Non da oggi viviamo ‘un tempo d’esodo’, che è «un tempo di fratture sociali, culturali e biografiche, esistenziali», dove «emergono anche rancori e risentimenti, chiusure e separazioni, viene in luce la traccia violenta dell’umano» e «le solidarietà si rattrappiscono, rinchiuse in perimetri stretti; gli altri diventano ostacoli, o oggetti di cui disporre, oppure nemici da negare» 4 .
In questo tempo, solo in apparenza sospeso, occorre riconoscere come è proprio sul confine poroso, che consente il con-tatto, si apre lo spazio per la cor-responsabilità. Seguendo la lezione di Ivo Lizzola, possiamo apprezzare come «la responsabilità è la forma in cui si declina l’azione: proprio perché responsabile l’azione diventa capaità di apertura. Nella responsabilità assunta e agita una donna e un uomo prendono forma, la loro soggettività diviene narrazione nel tempo […].
L’azione non prende forma da una dimostrazione di ciò che è più giusto, o più efficace e conveniente o migliore. La ricava, invece, dall’attestazione di ciò che le persone che la sviluppano credono. E mostrano ‘vivendola’. Una ‘responsabilità concreta’, che potremmo immaginare come responsabilità ‘aumentata’ in quanto criteri di valore, attenzione all’altro, riconciliazione e incontro: ciò che vogliono attestare le donne e gli uomini si svela in ciò che sono in grado di realizzare, di raggiungere, in ciò per cui è bello proporre una responsabilità condivisa. Quello che si realizza è attestazione del realmente possibile, e della bontà che porta con sé per le persone coinvolte. Questo indipendentemente dal pieno compimento e senza l’illusione di poter disporre di sé, degli altri e del mondo.
Semplicemente offrendo» 5 . Emerge la necessità di riconoscere una differenza tra gli stessi confini: ci sono confini che impediscono, recintano, perimetrano, inibiscono che convivono con confini che consentono, autorizzano, permettono.
Il tempo degli interrogativi forti
Viviamo un tempo di forti interrogativi rispetto alle sorti della stessa globalizzazione che secondo Remo Bodei «costituisce una delle principali cause dell’abbattimento dei limiti» e ci espone a «problemi e inquietudini sostanzialmente nuovi che si riassumono nelle seguenti domande: * come orientarsi e dare senso alla propria vita in situazioni caratterizzate da un esaltante allargamento degli orizzonti individuali, ma anche, simultaneamente, dall’incremento esponenziale del tasso di complessità e conflittualità tra persone e popoli? * come inserire la coscienza del singolo nella trama concettuale ‘in fieri’ del proprio tempo, aiutandolo a trovare un qualche equilibrio tra la dimensione psicologica privata (dove tende inevitabilmente a fissarsi in un proprio ordine ‘tolemaico’, con l’io al centro) e quella pubblica, renderlo più aperto alle vicende comuni e più capace di fronteggiare il corso non sempre piacevole degli avvenimenti?» 6 .
Domande che vogliamo rilanciare perché ne avvertiamo la profondità e quindi l’utilità per qualsiasi progetto educativo che abbia a cuore la costruzione di percorsi per irrobustire la consapevolezza delle donne e degli uomini chiamati ad abitare questo tempo.
Massimiliano Colombi docente di sociologia, istituto teologico marchigiano, sezione di Fermo
1 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza Editori, Bari 2005, pag.101.
2 F. Cassano, op.cit., pag. 103.
3 F. Cassano, op.cit., pag. 104.
4 I. Lizzola, Violenza senza fine, attestazione e azione imperfetta: in dialogo con Simone Weil, in F. Amigoni, F. C. Manara (a cura di), Pensare il presente con Simone Weil, I quaderni della Porta, Effatà editrice, Cantalupa 2017, pag. 300.
5 I. Lizzola, op.cit., pag. 116.
6 R. Bodei, Limite, Il Mulino, Bologna 2016, pag. 77-79.