Il tempo di un nuovo linguaggio

di Colombo Giovanni

L’inimmaginabile è arrivato. Ci ha chiusi in casa per due mesi, stravolgendo le nostre abitudini e mettendo a dura prova la nostra psiche. E pure adesso, che stiamo riprendendo piano piano, viviamo di tentennamenti. Cosa ci sia successo di preciso e che cosa avverrà nel prossimo futuro nessuno è in grado di dirlo compiutamente. Si possono fare delle ipotesi. Io mi colloco tra quelli che pensano che la natura umana non cambierà certo per questa emergenza, ma altrettanto certamente nulla resterà come prima. C’è stata una ‘frattura instauratrice’, per usare una categoria del gesuita Michel de Certeau (1925-1986), una situazione che genera nuovi modi di pensare e di agire. Siamo cambiati e non sappiamo ancora se in meglio o se in peggio. Lo scopriremo solo vivendo. Intanto può essere utile fare tesoro dell’esperienza vissuta sulla propria pelle in famiglia, nei rapporti con gli amici e con il resto della comunità.

Sfogare il cuore

Non mi era mai successo di stare così vicino per così tanto tempo a moglie e tre figli, senza interruzioni e senza possibilità di fuga. Insieme a colazione, insieme a pranzo, insieme a cena. Preparare e sparecchiare per cinque persone. Dividersi bene gli spazi, non pestarsi i piedi, non sovrapporsi con le videolezioni e lo ‘smart working’, non esagerare con il tono di voce. È stata dura la quarantena in famiglia (ma a dire il vero, anche in condizioni normali, la vita di famiglia non scherza). È circolato un ‘videoclip’ che, con un certo ‘humour’, ha suggerito una strategia di sopravvivenza. C’è un padre intento a leggere sul divano quando viene chiamato da una voce di bambina. Il padre, che stava beatamente oziando, solleva di colpo davanti a sé un tabellone con stampato lo stesso motivo del divano. La bambina entra in scena, si guarda attorno, non vede nessuno e se ne va. II padre non viene allo scoperto, non spiccica una parola, riesce a nascondersi, può continuare a stare tranquillo. Nella realtà è successo esattamente il contrario di tutto questo. Nessuno è riuscito a isolarsi e, in alcuni casi, in alcuni momenti, è successo addirittura il miracolo di ascoltarsi, di comunicare, ancora di più, di ‘sfogare il cuore’. Intendo per ‘sfogare il cuore’ il dare libero corso alle emozioni, prima ancora che ai sentimenti. Le emozioni hanno grande importanza per la nostra vita, anzitutto a livello fisico: sono, come afferma il neuroscienziato Antonio Damasio, «il prodotto più intelligente del valore biologico». Lui ne elenca sei, che definisce ‘universali’, presenti in ogni individuo: paura, rabbia, tristezza, felicità, disgusto, sorpresa. E poi nove emozioni che definisce ‘sociali’, in quanto legate alle relazioni con gli altri esseri umani e che quindi variano maggiormente a seconda delle culture: compassione, imbarazzo, vergogna, senso di colpa, disprezzo, gelosia, invidia, orgoglio, ammirazione. La famiglia è il luogo a più alta emotività e con il ‘partner’ e i figli tutte e quindici spingono per uscire. Poiché l’emotività è fonte di disordine rispetto al ‘bon ton’ e non è di facile gestione, tendenzialmente viene trattenuta, quando non congelata. A furia di trattarla così, si creano le premesse di disastri affettivi. Durante il lockdown, non subito all’inizio, ma dopo qualche settimana, è capitato di non potere più fare a meno di mettersi a nudo, di togliere pure le mascherine (che del resto in casa non erano richieste) e di esprimere di tutto e di più: paura e rabbia, tristezza e felicità, gelosia e ammirazione. E di scoprire che non sei solo e neppure da solo di fronte alle tue emozioni. Le tue emozioni sono parte di te, sono parte di noi. Se riconosciute e guidate, sono il primo potente motore delle nostre esistenze.

Scrivere agli amici

Nei pomeriggi senza uscite e nelle serate senza incontri è stato utile guardare la rubrica del cellulare e domandarsi: chi sono le persone importanti della mia vita? Quelle che presumibilmente verrebbero a trovarmi in ospedale e che parteciperebbero all’ultimo saluto? In altre parole: chi sono i miei amici? O meglio ancora, di chi io sono amico? L’amicizia è quanto mai rara e preziosa. Rara perché oggi si moltiplicano le connessioni, che in fretta si attivano e in fretta si disattivano, e tendono quindi a sparire i legami che durano. Diceva Oscar Wilde, con uno dei suoi paradossi, che «l’amicizia è più tragica dell’amore perché dura più a lungo». L’amicizia è poi tanto preziosa in quanto resta l’antidoto per eccellenza alla solitudine. L’amicizia non dà soluzioni ai problemi della vita, non ha risposte per dubbi o timori, non può cambiare né il passato né il futuro, ma sa ascoltare e porge la mano. Gioisce quando ti vede felice. Piange con te quando qualche pena ti tocca il cuore. Nell’amicizia succede il miracolo tanto atteso: qualcuno crede in noi ed è disposto a fidarsi di noi. L’amicizia vive di riti e uno di questi, che si è perso nel corso del tempo e che invece il lockdown mi ha fatto ritrovare, è quello di scrivere lettere e cartoline. E vista la difficoltà a trovare francobolli, anche e-mail e SMS. Questo rito è meravigliosamente appagante sia per chi scrive sia per chi legge. Chi scrive può esprimere in libertà sentimenti e pensieri e può cogliere l’occasione di comunicare desideri, sogni, obiettivi. Chi riceve sperimenta confidenza e ogni confidenza è una piccola festa che dà calore al cuore.

La fine della comunità?

Mentre a livello familiare e amicale qualcosa si mosso nella direzione di una maggiore co-spirazione (= respirare insieme), molto più problematico sembra quello che sta succedendo nel mondo esterno. È rivelatore l’infelice motto, inventato da qualche burocrate o comunicatore di passaggio, ovunque ripetuto come un ‘mantra’: «distanziamento sociale». Si sta forse compiendo a velocità accelerata la secolare storia dell’individuo moderno, che annuncia definitivamente la sua impotenza a dare vita a qualsiasi tipo di comunità? C’è un ripetuto invito a stare ‘tutti a casa’, che sembra molto di più di un imperativo dettato da ragioni sanitarie. Qualcuno (uno spirito demoniaco?) suggerisce di aumentare le distanze vita natural durante. Non sarebbe meglio svolgere da casa, da bravi individui, il lavoro? Che avessero luogo a distanza incontri e lezioni? Perché non farne la regola per uffici, scuole, università? È vero: la prossimità è sempre un rischio, e non tanto per il contagio virale, ma in quanto può sempre capitare che nel colloquio, nell’incontro ravvicinato, l’individuo riconosca la sua fragilità e il suo bisogno dell’altro e nasca il germe di un pensiero critico e di un’azione comune. La dobbiamo quindi evitare, la prossimità, più che la peste? Appare questa la forma politica di grandi imperi, del ‘capitalismo politico’ cinese e per altri versi russo e magari sempre più anche americano. E appare questa la logica dell’economia, che dà il meglio di sé quando può contare su una moltitudine di addomesticati individui. Tanti commentatori in questo momento sembrano, più o meno consapevolmente, dimenticare che soltanto il contatto dei corpi e il colloquio tra le menti, la discussione, il confronto e anche la lotta tra loro, hanno saputo produrre la democrazia e il progresso. Nel frattempo, coloro che credono che l’economia e la politica debbano sganciarsi per sempre dalla libertà – intesa come capacità critica, partecipazione e organizzazione – pensano di avere l’occasione propizia per imporsi. Se vincessero loro, il mondo globale assumerebbe in breve l’aspetto di un mucchio immenso di case private. Se non è già troppo tardi, è tempo che un altro linguaggio – un linguaggio di comunione, incentrato su ‘persone e comunità’ – si faccia subito sentire.

Giovanni Colombo avvocato, già consigliere comunale di Milano e presidente della Rosa Bianca italiana