La guerra di tutti
Un libro interessante
Fare i conti con tanta parte della disorientante complessità che oggi ci circonda non è così semplice. In La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale (minimum fax, Roma, 2019), Raffaele Alberto Ventura ci prova. E lo fa in un modo molto interessante ed efficace. Soprattutto perché ci rivela che, se c’è qualche responsabile da additare al pubblico giudizio, non può che trattarsi del potente dispositivo su cui si sono prodotti e retti lo sviluppo e la «superiorità» del modello occidentale di convivenza e di governo.
Occorre dirlo subito: la critica di Ventura non ha nulla a che fare con note e diffuse prospettive anti-capitalistiche, anti-moderne, cosmopolite. O meglio: sono prospettive che nell’economia del suo discorso acquisiscono un certo senso, una spiegazione; ma non si tratta soltanto di questo. Ventura, piuttosto, cerca di andare al centro della questione, analizzando i sintomi di un cataclisma culturale – e antropologico – che conduce direttamente al cuore dei meccanismi di riconoscimento e di legittimazione del potere che si sono stabilizzati, dal XV secolo in poi, con l’affermazione della statualità. La crisi di cui ci parla, in altre parole, è la crisi di un certo modo di giustificare, canalizzare e controllare la produzione della violenza. Eppure non è, banalmente, la crisi dello Stato o, tanto meno, dell’idea di nazione o del concetto della cittadinanza o della teoria dei diritti.
Populismo, razzismo, diffusione di fake news, sfiducia in qualsiasi forma organizzata di sapere o di competenza, terrorismo, cospirazionismi di ogni genere: per Ventura sono tutte manifestazioni reattive, segnali di una paura che proviene da un sostanziale processo di disgregazione sociale o, come afferma lui stesso, di dissimilazione. È la società dissimilata a dare sfogo alla guerra di tutti, e paradossalmente questa situazione nasce da una specie di insoddisfazione qualificata, dal sentimento quasi paranoico di un’Occidente che ha sempre ritenuto che il proprio ordine fosse quello perfetto («il sistema garantisce libertà e democrazia») e che, di fronte alle défaillances che questo dimostra dinanzi a nuove sfide, ci sia inevitabilmente qualcosa che non va («se non lo fa, è perché c’è una dittatura o un complotto»).
Il paradosso è il profilo più intrigante di questa ricostruzione: la spinta alla dissimilazione è il frutto degli amplissimi, quanto apparenti, margini di libertà e di autonomia che pure il modello occidentale ha di fatto garantito e che la tecnologia, in primis quella della rete, sembra amplificare a dismisura. Così, in questa cornice, da un lato si dà per ciascuno l’illusione di essere un protagonista cosciente e attivo, padrone della propria vita e della stessa conoscibilità di ciò che accade nel mondo, dall’altro si profila il conseguente e facile abbandono all’intolleranza e al conflitto, visto che, come sosteneva Thomas Hobbes, in uno spazio in cui non vi è alcun oggettivo riconoscimento di sovranità la regola è «homo homini lupus» e la propria sicurezza diviene il bene supremo, al quale sacrificare ogni altra cosa.
Una prognosi inquietante e una sfida
Il ragionamento di Ventura è molto più ricco e ramificato di quanto possa far intravedere questa breve sintesi, ed è anche acutamente punteggiato dal ricorso esemplificativo a un mix di illuminanti richiami di cultura pop e di alto e ricercato pensiero: dalla fantascienza al cinema, dalla psicologia collettiva alla filosofia, dalla storia economica alla scienza politica e giuridica. La guerra di tutti è un libro che va letto specialmente per questo eclettismo, che in molte parti può risultare perfino gustoso, anche perché si distanzia dalla saggistica monocorde e didascalica cui il pubblico italiano è generalmente assuefatto.
Le conclusioni, però, sono disperate e allarmanti: «siamo giunti nel cuore di tenebra», ammonisce Ventura, perché l’alternativa è una sola: o trovare una catarsi materiale nell’abbandono alla violenza e alla conflagrazione generale che ne può sorgere; o immaginarsi una nuova forma di «dominazione simbolica sul mondo», un nuovo «stratagemma» per occultare ancora la violenza, il convitato di pietra con cui dobbiamo necessariamente banchettare.
Se scartiamo il primo scenario, quello apocalittico, che cosa ci resta? Che cosa possiamo immaginare, oggi, di veramente nuovo? Ventura non offre risposte; del resto rischierebbero di essere troppo frettolose, emotive.
A ben vedere non è nemmeno necessario porsi il problema di doverle trovare qui e ora. Intanto perché l’impasse è la stessa in cui si sono imbattuti tanti grandi interpreti della nostra contemporaneità (anche Bauman e žiì…¾ek – tanto per citarne un paio, e di assai diversi tra loro – sono molto profondi nella pars destruens e poco convincenti nella pars construens): non è, quindi, un affare da poco.
Poi perché la sfida, pur chiamando in causa innanzitutto coloro che di lavoro pensano e ragionano continuativamente, quelli che di solito appelliamo come «studiosi», è di metodo, non di contenuto; ed è destinata a svolgersi simultaneamente su due fronti, un po’ come si dice che debba avvenire per il contrasto del climate change: da un lato si tratta di rallentare i tempi del fenomeno, di renderlo momentaneamente verificabile, prevedibile e sostenibile, per «invertire la rotta»; dall’altro si tratta di facilitare e concentrare le occasioni per una nuova immaginazione istituzionale, preparando un possibile «take off ».
Tra opinione pubblica e sforzo teorico
Sul primo versante occorre riconoscere che nei processi di dissimilazione culturale di cui tratta Ventura il ruolo predominante è giocato dall’opinione pubblica e che è lo strano ircocervo delle «subculture di massa» (strano perché, se sono subculture, non potrebbero essere di massaââ€šì… eppure lo diventano) a condizionarne gli strumenti critici.
In altre parole, ciò di cui abbiamo molto bisogno è una trasversale e decisa iniezione di buona cultura generale, veicolata, se possibile, da un massiccio investimento nella formazione di base e da un altrettanto risoluto ricorso alla migliore e più chiara divulgazione scientifica.
Non sono, peraltro, obiettivi da perseguirsi nei confini di una o di un’altra comunità, più o meno grandi; sono goals di dimensione globale, per i quali a doversi impegnare in prima linea sono gli studiosi, le cui reti sono, per definizione, le meno dissimilate o disintegrate tra quelle disponibili, dato che poggiano prevalentemente sulla condivisione epistemica, non sul riconoscimento di una specifica e univoca autorità.
Che debbano essere proprio gli studiosi ad affrontare anche questo fronte è un elemento indispensabile: perché ciò consente di evitare che si rendano essi stessi partecipi dell’esiziale processo di dissimilazione (che non può che giovarsi della loro programmatica autoreferenzialità); e perché è essenziale che l’opinione pubblica sia espressamente cosciente del carattere eminentemente simbolico delle strutture di dominio e di governo, al di fuori di qualsivoglia retorica «positiva» (che non può che aggravare le delusioni e i meccanismi reattivi).
Anche il secondo versante è materia degli studiosi; anzi, è la loro materia per eccellenza, quella che viene coltivata, ormai, solo in pochissime sedi: è per questa ragione che, come si avvertiva, si deve cambiare metodo. Per esprimere questo punto di vista è utile combinare due distinti approcci, in tutto e per tutto fondamentali.
Il primo ci è dato dal lascito di uno dei più grandi «esploratori» (il fondatore, per la verità) della «teoria delle catastrofi», René Thom: «Nel momento in cui tanti studiosi calcolano, in qualche parte del mondo, non è auspicabile che qualcuno, che lo può, sogni?». Ciò significa che la migliore tecnica, di cui gli studiosi, per l’appunto, sono capaci, deve rianimarsi di una spinta immaginativa, di quella capacità – che potremmo definire, in senso lato, metaforica – che è stata anche all’origine dell’elaborazione dei dispositivi oggi in crisi, come di tante scoperte rivoluzionarie.
Proprio a tale riguardo viene in gioco il secondo, e decisivo, approccio, poiché esso solo può preparare il terreno per lo sforzo metaforico di cui abbiamo bisogno: è la cosiddetta «terza cultura», il dialogo stretto, se non la fusione, tra scienze dure e scienze sociali e umane, visto che, senza le prime, le seconde non hanno oggetti verosimili su cui esprimersi, e che, senza le seconde, le prime non hanno alcuna chance di contribuire a trasformare efficacemente la realtà. È, questa, la «sfida nella sfida», perché la specializzazione, l’organizzazione e la valutazione del lavoro scientifico sono, a loro volta, manifestazioni coerenti e, dopo tutto, fruttuose del sistema di dominio che a lungo abbiamo apprezzato e che, pure, sembra destinato al fallimento.
Fulvio Cortese ordinario di diritto amministrativo, preside della facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Trento