La pedagogia della parola 4

di AA. VV.

Ricordando Giuseppe Stoppiglia

Viandante in cielo
Un grandissimo abbraccio a un caro amico che se ne va, viandante in cielo, che rinascerà in Cristo.
Roberto Marin

Questo non può essere un prete
Rideva, con quella sua risata da bambino. Poi mi ha fatto gli auguri per la mia carriera giornalistica, e quella è stata l’ultima volta che l’ho visto; era agosto. Non sai mai quand’è l’ultima volta che vedi una persona importante, forse è meglio non sapere. Non ricordo la prima volta, ma il suo primo discorso sì, è stata anche la prima volta che l’ho osservato bene.
«Questo non può essere un prete» – ho pensato. Con quel suo barbone bianco e gli occhi luminosi, quel giorno parlava male di Dio. Per me era una novità che un ministro della Chiesa parlasse così, poi mi sarei quasi abituata a tutte le volte in cui Beppe si diceva arrabbiato col seminario, quando difendeva la bestemmia se era «il grido di dolore dell’operaio». La verità è che Giuseppe era un amico prezioso, lui sapeva voler bene come nessuno. Quando si è ammalato avrei voluto prendermi un po’ del suo male.
Gaetano e Beppe dicevano che alcune malattie non guariscono ma si possono curare: la cura sono gli amici e la famiglia. Mi piace pensare che eravamo noi la cura di Giuseppe. La mia frase preferita di Beppe è proprio a proposito di Gaetano: «Ci siamo salvati perché vivevamo insieme».
Cecilia Alfier

Sembrava il Dio in Terra del mio catechismo di bambina
Giuseppe, anzi, Gaetano. Ho conosciuto Giuseppe dopo aver conosciuto Gaetano, al quale arrivai su consiglio di don Arrigo Chieregatti, dopo che gli avevo espresso la mia intenzione di andare in Brasile. Sarei andata da sola e quindi cercavo qualche contatto, qualche riferimento. Fu così che nel luglio 2007 incontrai Gaetano al Lido di Spina, dove era in vacanza per qualche giorno. Da lì a poco sarei partita per il Brasile. Fu questa l’occasione che mi avvicinò al mondo di Macondo. Prima ancora di incontrare Giuseppe, quindi, sentii parlare di lui da molti, e tutti ne parlavano come di una presenza solida, ma anche fluida, dai confini ampi e in perenne via di definizione, in un cammino di ricerca per fare della sua «missione» qualcosa di utile soprattutto a coloro che contano meno su questa Terra. Lo incontrai solo di ritorno dal Brasile, in un’occasione «macondina»: ecco, pensai, proprio l’immagine del Dio che mi raccontavano da piccola a catechismo, imponente, bianchi capelli al vento un poco arruffati, barba bianca anch’essa, passo fiero e in parte irriverente, in fondo era Dio! Ma poi Dio non era, e nonostante l’approccio deciso e curioso («Ehi, bolognese!»), sprizzava umanità attenta alle sensibilità altrui. Ecco, questo è stato il mio incontro con Giuseppe, Dio in Terra.
Donatella Ianelli

Uno fra le migliaia di volti che ha incrociato il suo sguardo azzurro
Giuseppe non si ricorderebbe di me, uno fra le migliaia di volti che ha incrociato il suo sguardo azzurro.
Proprio per questo lo voglio ricordare io. Lo ascoltai la prima volta vent’anni fa, il nostro gruppo di lettura sentiva bisogno di nutrimento, di testimonianze vive su un modo altro di intendere le parole fede, vita, speranza, rapporti umani. Un amico ci indicò Giuseppe, lo invitammo a Marzabotto. Ci parlò della sua vita in seminario, delle sue scoperte sul mondo una volta fuori di lì, ci parlò di tenerezza e umanità. Ridemmo un sacco, io rimasi fulminata. Lo seguivamo a convegni e presentazioni nella nostra zona. L’abbonamento a madrugada per me irrinunciabile, le lettere agli amici lette e conservate con cura. Non lo dimenticherò.
Debora Domenichelli

Registro poetico e denuncia sociale
Per molti anni, grazie al caro amico Stefano Benacchio, ho conosciuto Giuseppe attraverso i suoi scritti su madrugada. Pur trovando nei suoi articoli risonanze di altre mie letture su argomenti di filosofia, politica, economia, mi ha sempre colpito la sua originalità, in particolare la sua capacità di coniugare il registro quasi poetico di certi lontani ricordi autobiografici, quello cronachistico degli incontri con gli «ultimi», quello, estremamente lucido, potente e direi quasi profetico, della denuncia sociale.
Massimo Berto

Un filo mai interrotto
Ho avuto il piacere di sostenere Giuseppe Stoppiglia per la cittadinanza onoraria del Comune di Comacchio nel 2016 con una lettera al sindaco.
Questo mi ha costretta a ripensare alla lunga storia che mi ha legato a lui e a Gaetano, una vera «coppia di fatto» come gli dicevo scherzando.
Ho conosciuto Stoppiglia alla fine degli anni ’70 a Bologna, quando mi coinvolse nella sua esperienza innovativa di formazione sindacale. Il suo punto di vista indipendente, una visione solidale, uno sguardo largo sul mondo con le sue sofferenze e ingiustizie, unite a un sorriso aperto e appassionato, sono stati gli ingredienti da cui tanto ho appreso e ricevuto.
La sua formazione critica puntava all’autonomia delle persone, alla capacità di fare squadra, creare figure autorevoli senza creare autoritarismo.
Insieme abbiamo percorso un pezzo di strada nella formazione, una lezione rimasta feconda e utile per le mie esperienze di responsabilità e impegno pubblico arrivate più tardi, quando la vita ci ha portato a fare esperienze diverse ma mai ci ha allontanato. Un filo di dialogo e condivisione che non si è mai interrotto nel corso di 40 anni.
Anna Donati

Porta aperta
Sentii parlare di Giuseppe negli anni novanta, di questo prete dalla folta barba e dalle parole tra profezia e poesia. Passarono gli anni e venendo in vallata come parroco potei approfondire più da vicino il suo percorso e conoscerlo personalmente. Spesso mi avvalsi della sua collaborazione per celebrazioni e incontri, ma quello che più mi fece del bene era constatare la sua porta, sempre aperta, sempre sulla strada e sempre sul mondo. Mi fece del bene vedere la sua casa come un porto di mare, dove tante persone, come me, attraccavano esistenza e sogni.
Giuseppe per me è stato il maestro dell’ascolto e dello stupore, il fratello in attesa, il prete in alta tensione verso l’alto, l’amico che benediva con l’abbraccio. Non mi preoccupa se lui è passato, perché oggi c’è ancora quella casa, c’è sempre quel porto, c’è ancora chi ti accoglie e ti ascolta! Il sogno di Giuseppe continua, è appena iniziato!
don Gaetano Borgo

Provo a rispondere alla tua ultima lettera
Caro Giuseppe, provo a rispondere alla tua ultima lettera che iniziava così: «Figlia mia prediletta». E mi sono fermata lì. A quel punto, qualunque cosa tu avessi scritto, avrei raccolto tutto, il dolce e l’amaro, senza muover sillaba. E mi sovveniva un ricordo lontano. Eri venuto a Schio per una conferenza ed ero curiosa di ascoltarti, sentirti. Per tutto il tempo hai interloquito con una ragazza del pubblico; quella volta ho invidiato l’intimità che avevi con quella persona, e avrei voluto essere io al suo posto, pensa te! Che quando poi è successo a me di essere il tuo parafulmine a una conferenza, mi sono emozionata e sono diventata rossa come il fuoco per tutto il tempo! Sulla dedica di un libro che mi hai consegnato, con la grafia incerta della tua ultima malattia, mi scrivevi: «La tua vocazione messianica è quella di far scoprire la dimensione dell’anima». E hai saputo accogliere senza pregiudizio anche il tempo della mia sofferenza.
Tu hai celebrato la vita, amando i boschi e la Sierra Locandona, in Messico, dove hai incontrato Marcos, hai amato gli operai nelle fabbriche, il Veneto e le favelas.
E poi, Giuseppe, tu hai difeso la donna, ne celebravi la forza vitale, la dolcezza, la resistenza nella sofferenza, pur movendo critica a quante seguivano il modello efficiente, maschile della competizione.
Silvia Fontana

Le risate di Maria
Ricordare Giuseppe vuol dire ricordare Maria e se ricordi Maria non puoi che pensare a Gaetano. Loro erano tre e tre saranno per sempre.
Il furore di Giuseppe, le sue parole, fluivano importanti e si scolpivano, spesso con dolore, nella coscienza, la sua irruenza era però spesso mitigata dalla capacità di ascolto di Maria che regalava allegria e sapeva prendersi gioco di lui, con risate contagiose, in modo dolcissimo, come erano i loro occhi. Ci aiutava a riflettere semplificando, quasi traducendo quelle parole per lenire il nostro dolore.
Come Giuseppe era determinata, instancabile, mai sazia di novità, sempre in cerca di qualcosa di più, quel di più che ha trovato nella Casa «Del Giovane» di Rio de Janeiro.
Solo Gaetano, uomo impastato con carne e amore, con la pacatezza e il carisma di chi è nato vicino al mare rendeva quell’energia un progetto e quel progetto iniziativa.
Ha sempre trasformato quei bagliori di scintille che uscivano dal vulcano in un grande fuoco che ha dilagato ovunque.
Io che li ho incontrati, li amo da sempre; ho condiviso l’irrequietezza, la lotta e la voglia di non darla vinta; ci ha uniti la loro fede in Dio e la nostra comune fede nell’uomo.
Stefano Cavallini

Soffice come i fiori del cotone
L’immagine più nitida che ho di Giuseppe è il suo sguardo limpido e indagatore, la sua barba argentea, soffice come i fiori del cotone, profumata. E i suoi abbracci. Prima della malattia, durante l’Avvento, veniva a casa nostra a Piovene Rocchette o a Schio, con Gaetano e qualche volta anche con Stefano. Sceglievamo un tema e lui lo sviluppava. Invitavamo gli amici e magari anche qualcuno che ancora non lo conosceva. Si mangiava qualcosa insieme e poi ci facevamo gli auguri. A quegli incontri andavamo «affamati», desiderosi di colmare un vuoto che lui riempiva con le sue parole e con un po’ di speranza. Una volta, particolarmente disgustata dalla politica del momento, dissi con superficialità che forse era meglio non andare a votare; Giuseppe mi rimproverò severamente e mi offesi, anche se, come sempre, lui aveva ragione.
Così per i suoi 80 anni decisi di dipingere una maternità: una mamma che allattava un neonato. Quando gli consegnai il dipinto rimase sorpreso e si commosse, come spesso succedeva da quando era malato.
Daniela Baroni

In direzione ostinata e contraria
«Una Chiesa povera e per i poveri», questo il desiderio espresso da Papa Francesco a poche ore dalla sua elezione al soglio di Pietro. Una convinzione che già molti anni prima mi aveva trasmesso Giuseppe, incontrandolo a una conferenza a Padova.
Sembrava mi conoscesse da sempre e che i suoi occhi chiari e profondi avessero già avuto modo di sondare i miei stati d’animo, le mie incertezze e paure, fanali sempre pronti a illuminare qualsiasi tipo di tunnel e nel buio provare comunque ad accendere la speranza. Vicino a lui ho imparato che i più piccoli e indifesi sono la cartina di tornasole di una società che potrà dirsi sana e guardare al futuro solo quando i bambini torneranno a giocare. Un prete e un viandante che, come Fabrizio De André, ha camminato spedito «in direzione ostinata e contraria» .
Giovanni Rattini

Tempesta, madre, primo sole
Come una tempesta, che scuote e
spazza via,
la tua forza e il tuo vigore hanno
scavato solchi, professato parole,
macigni di verità il cui peso non
era facile portare.
Come il primo sole tiepido, che
inizia a sciogliere la rugiada
e a richiamare i profumi di
primavera,
la tua tenerezza ha avvolto uomini
e donne di ogni dove e come
abbracciando il loro volto
umano anche quando l’avevano
dimenticato.
Come una madre con il suo figlio.
Hai amato davvero,
genuino e gratuito dono a chi
incontravi.
Erica Stocco

I figli degli altri.
Ciò che più colpiva di lui a un primo incontro era il suo interesse, schietto e umanissimo, per te come uomo/ donna, in carne e ossa, con la tua storia, le tue relazioni, le tue difficoltà.
Sentivi che gli importava veramente di te e che potevi contare sulla sua amicizia e sul suo affetto del tutto gratuiti, non volti a cambiarti un po’ la testa per attirarti in Macondo e salvarti l’anima, come talvolta succede in associazioni fondate da religiosi.
La sua lezione? Dare voce e fare spazio a tutti, cominciando dai poveri e dalle donne. Mi piace ricordare una sua frase: «La madre che non ama i figli delle altre madri non ama neanche i propri».
Eugenia Debortoli

Tutto il suo corpo e tutta la sua anima
Giuseppe era prima di tutto un uomo, un vero uomo, con la sua carnalità, la sua vitalità, il suo entusiasmo, la sua irruenza, la sua partecipazione alla vita. Quando ti abbracciava ti stringeva forte, quasi ti stritolava, e quando ti baciava sentivi tutto il suo essere, tutto il suo corpo e tutta la sua anima. Nello stesso tempo era delicato e sensibile come un bambino e mai e poi mai avrebbe fatto qualcosa per metterti in difficoltà. Sapeva arrivarti diritto al cuore, senza preamboli o formalità. Anche se ti vedeva per la prima volta, si comportava come se ti avesse sempre conosciuto e ti voleva bene perché ti considerava veramente suo fratello. Giuseppe non è morto, è più che mai vivo e accanto a noi, perché il suo amore è più forte della morte, non si dissolve con il corpo.
Vittorio Fabris

Due secondi
Mi ci portò Mario dell’Associazione Tonel a conoscere Giuseppe che presentava il suo libro Diario di un viandante. Me lo feci autografare. Poi, emozionata, lessi la dedica: «A Lucia per gli occhi profondi che hai». Due secondi e lui mi aveva già visto.
Lucia Sansonne

Nella casa di Pove
Andavo a trovarlo con mio marito Francisco alla casa di Pove, momenti preziosi in cui avevamo Giuseppe tutto per noi. Bevendo caffè e mangiando cioccolatini, con lui e Gaetano si parlava di tutto, di quel che accadeva nel mondo e anche di noi, della nostra situazione di coppia con radici in posti lontani.
Una delle cose che più mi colpiva di Giuseppe era come lui sapesse leggere dentro di noi. Sapeva puntare dritto all’essenziale di ciò che bisognava cambiare, coltivare, costruire.
Elena Testi

Il maglione slabbrato
Il mio ultimo incontro con Giuseppe risale al 2015. A Lurago d’Erba (Como) avevamo organizzato una presentazione del suo ultimo libro.
Nonostante fossero passati più di vent’anni dai tempi della nostra prima conoscenza, rispose subito con entusiasmo all’invito e organizzò la trasferta in Brianza. Me lo trovai davanti decisamente invecchiato.
Il viaggio in auto lo aveva stancato ed ebbe solo il tempo per una breve cena a casa del sindaco. La sera si trasformò: parlò per più di tre ore, quasi ininterrottamente, di amore, accoglienza, poveri e lavoro. Strattonò più volte il moderatore, un ex seminarista, oggi funzionario di partito e appassionato di libri, cui avevamo affidato la conduzione dell’incontro. Da quella volta, mi rinfaccia simpaticamente il maglione che indirettamente gli avrei rovinato. Un maglione slabbrato, questo è il mio ultimo ricordo di Giuseppe, prete e viandante.
Giovanni Molteni

Come quella specie di Gandalf conobbe quel testone di me medesimo
Notte, non fonda ma quasi, il monitor del computer è fisso da qualche ora su Facebook, si naviga qua e là, si legge, si commenta, si scrive, cose giuste, serie, facezie e anche banalità. A un tratto appare la paginetta di Messenger, un messaggio da un tal Giuseppe Stoppiglia, un saluto, un invito al dialogo, guardo la foto, mi chiedo ma chi è questo «Gandalf » con la barba bianca e gli occhi color del cielo? accetto, dialoghiamo. A un certo punto mi scrive «Sai io sono un prete». Cavolo! D’istinto rispondo ironicamente nell’intercalare bolognese «Pizz par te!» (peggio per te) e lui, sornione e sorridente, avendo vissuto a Bologna sapeva con che bestia si stava confrontando, «è un problema?». «Assolutamente no», gli faccio eco, anzi! Era da qualche anno che ero tornato sul cammino che conduce al Padre e al suo amore.
Proseguendo la nostra conversazione nei giorni a seguire, mi arricchivo delle sue parole, dei suoi modi sinceri, schietti, amichevoli ma soprattutto pieni d’amore gratuito, che solo dopo qualche tempo avrei compreso in tutta la sua bellezza e potenza, proprio grazie a Giuseppe. Mi invitò a Bassano del Grappa per la presentazione del suo ultimo libro Vedo un ramo di mandorlo.
A Bassano credevo di trovare un prete di parrocchia, invece mi ritrovo un leone, una roccia del Grappa, insomma, un pezzo da novanta! Nella mia vita ho avuto tre padri: Dio, il mio babbo e Giuseppe, tutti e tre mi hanno donato la vita e saranno sempre dentro di me, fino a quando non ci rivedremo per riposare sotto un ramo di mandorlo in fiore.
Davide Bernardi

Ci siamo solo guardati senza parlare
Eravamo al parco di villa Gandini, ci siamo solo guardati senza parlare, ma da quel giorno è entrato nel mio cuore e non è più andato via.
Cesare Pigoni

Forse anche questo Stoppiglia aveva la stessa malattia
Lo zio Carlo mi aveva detto che questo prete di cognome faceva Stoppiglia e, anche se il nome lo avevo scordato, l’indizio era sufficiente per trovare il suo indirizzo sull’elenco telefonico. Volevo incontrarlo. Perché gli amici dello zio sono miei amici.
E perché lo zio era comunista, e tutti a casa lo dicevano sottovoce, come se, poverino, avesse avuto una brutta malattia. La stessa che aveva il prof di filosofia e pochissimi altri, in mezzo al mare bianco della democristianissima contea bassanese. Forse, chissà, anche questo Stoppiglia lo era: la cosa mi solleticava parecchio.
Finiva l’estate del 1989, e andai a cercarlo.
Appena entrai nella casa di via Romanelle fui subito sottoposta a una raffica di domande, alle quali, secondo me, non risposi tanto bene, perché lui rideva spesso. Io arrancavo, tentavo di capire il senso di quell’interrogatorio, stizzita, perché le domande avrei voluto farle io. Ci lasciammo dopo mezz’ora. Ero riuscita a chiedergli di venire in parrocchia per incontrare i giovani del paese. Mi aspettavo un rifiuto, invece mi disse che ci avrebbe pensato. Dopo alcuni mesi, mi chiamò.
Chiara Cucchini

Sono e rimango farinelliano
Giuseppe è morto, ma resta presente in me per alcune conversazioni e immagine comiche, sbocciate dalla sua interpretazione del quotidiano, che stava fuori dalle regole. Vado veloce, per quadri.
Primo quadro – Giuseppe è invitato a benedire l’unione di due sposi: lei cattolica, lui buddista, non faccio i nomi perché non ho la liberatoria.
Inizia il rito in duplice modalità: cattolica e buddista. Ci muoviamo dentro e fuori di una chiesetta, all’interno di un orto, rallegrato da una vigna, accanto scorre il fiume Brenta. Bepi intervista i parenti italiani e, con l’aiuto del traduttore, i parenti americani. Il rito dura più di tre ore e si interrompe solo grazie all’arrivo in Vespa del cuoco trafelato, che annuncia (sono le 21.30) che la cena è pronta e il riso s’allunga.
Secondo quadro – Giuseppe benedice le nozze di due amici di Macondo.
Lo sposo chiede a me e a Simone che allestisce il palco e i microfoni, di non mettere sul microfono un filo con tratto lungo, per impedire a Giuseppe di scendere tra gli invitati per intervistarli e sottoporli a domande trabocchetto. Giuseppe scende dal palchetto collocato sul prato (quando poteva, voleva celebrare la funzione religiosa in mezzo alla natura), ma il filo del microfono era troppo corto per scendere tra i fedeli partecipanti.
Continuava a tirare filo e microfono fino a staccare tutto. Voleva incontrare i tuoi occhi mentre ti faceva le domande scomode, conosceva i tuoi lati deboli, le tue paure e le tue incertezze, e mentre infieriva e colpiva, ti accarezzava, come succede spesso nella vita.
Terzo quadro – La messa di Natale e Pasqua. L’incontro con gli amici che venivano da lontano. Giuseppe li salutava uno per uno a mano a mano che entravano. Teneva la barba composta e profumata; era un segno di narcisismo, ma anche di solennità.
Chiamava Alessandro da Bologna e snocciolava i ricordi suoi del periodo operaio alla Calzoni. Riconosceva Francesca da Comacchio, e allora via con le nostalgie del periodo comacchiese, poi ancora con quelli che partivano per paesi lontani: Brasile, Messico, Africa, Paesi dell’est ecc. Poi finalmente la santa messa: il braccio sulla spalla del vicino, chiamarlo per nome, proclamare il perdono di Dio al fratello. E qui partiva con la Misericordia, cosa fosse, ma nessuno conosceva la risposta, quella giusta. In chiusura gli abbracci e i baci, in prima fila le donne, i maschi in seconda fila.
Quarto quadro – Giuseppe amava camminare per la città, incontrare le persone, scambiare chiacchiere e parole che incrociavano i dolori e le speranze dell’amico che incontrava.
Comprava ogni giorno i quotidiani, La Gazzetta dello Sport la prendeva in uso al bar con il caffè e la brioche; se ironizzavo sul suo amore per la Ferrari, rispondeva a tono che, se vince la Rossa, il made in Italy vola. Mi capitava di camminare lungo il Brenta e di passare per Campese davanti a casa sua. Non suonavo più il campanello; entravo chiedendo permesso come si faceva nelle nostre case cinquant’anni fa e le porte erano aperte e senza chiave. Entravo annunciando: sono farinelliano, e gridavo perché mi sentisse Giuseppe, nostro presidente onorario. Poi prendevo un bicchiere d’acqua, un caffè e dopo una breve sosta di battute, aneddoti e scherzi, riprendevo la bicicletta per casa.
Paolo Costa

La gratitudine assomiglia al legno.
C’è una gratitudine che avresti voglia di ringraziare.
(Jan Twardowski)

Un ricordo si fa largo tra gli altri: la carovana di amici, volata dall’Italia assieme a Giuseppe per scoprire il Brasile delle comunità di base. Lui era la guida che abbandonava presto il suo gregge, perché desiderava che liberamente pascolasse sui territori di terra rossa senza fine.
Allora io ero ancora un ragazzo di campagna; Bepi mi notò e vide in me delle forze e delle capacità che non conoscevo: fu l’inizio della mia scelta professionale e di lunghe conversazioni che avrebbero segnato gli stadi e le soste del mio vivere quotidiano.
Sono diventato il falegname della sede di Macondo, lo dico con orgoglio; da artigiano ho voluto arredare anche la sua casa con il calore e la fragranza del legno, che conforta la vista e rallegra il cuore.
Carlo Valle

Il bello di ognuno
Conoscerlo è stata una scoperta.
Il suo sguardo ti leggeva l’anima e coglieva il bello di ognuno.
Mi manca molto.
Loredana Venturini

Anima speciale
Come si fa a sintetizzare? È stato un prete, ma soprattutto un uomo, un padre, un fratello e un’anima speciale ancora di fanciullo, con il cuore sempre attento, verso gli ultimi, i poveri, i malati, gli immigrati e ogni persona che avesse bisogno anche solo di un po’ di amore. Giuseppe ne ha donato davvero tanto. I suoi occhi, azzurri come il cielo di montagna, da lui tanto amata, rimarranno per sempre impressi nel mio cuore. Grazie Giuseppe, prima o poi ci rincontreremo.
Elisabetta Pizzi Giorgioni

La si vedeva a occhio nudo
Conoscere Giuseppe e Gaetano è stato per noi incontrare una scintilla di Dio. Nello sguardo di Giuseppe, quasi la si vedeva a occhio nudo.
Maria Grazia Quintavalle,
Alessandro e Giulia Mason

La scelta dell’Africa
Il suo sguardo così brillante e vivo, che si faceva cupo e triste quando raccontava degli episodi di maltrattamenti di donne e bambini, sono immagini che non si dimenticano.
Conosceva il vero rispetto della donna. La sua figura missionaria ci ha forse inconsapevolmente guidato in scelte successive. Valentina, che ha sempre avuto il richiamo dall’Africa, nel 2005 è stata in Etiopia per un’esperienza di volontariato professionale. Dopo tanti anni, nel 2018, insieme con le nostre figlie siamo andati in Kenya, a visitare la missione di Nyahururu. Ci piace pensare che un po’ di Giuseppe ci sia in tutto questo: il suo essere viandante, il suo essere giusto e onesto.
Andrea Colotti e Valentina Aguggiaro

Sogni e percorsi
Di quell’incontro ricordo l’intuito con il quale colse immediatamente il sogno che ci animava di poter fare una esperienza di volontariato in Brasile. Questo desiderio, anche grazie a Beppe e a Macondo, si è poi realizzato con la partenza nel settembre del ’93. Come a volte accade, nel proseguo del progetto emersero difficoltà. L’esperienza per noi, a Rio de Janeiro, è continuata su altre strade e altri incontri.
Resta la sua profonda riflessione, lo sguardo aperto di chi sa vedere lontano e la sensazione di avere di fronte un sognatore che si prodigava per trasformare i sogni di tanti in percorsi possibili.
Giuseppe e Giliana Marchi

Il viaggio più grande
Una domenica di quasi 20 anni fa.
Giuseppe era venuto a dire la messa con il nostro parroco nella mia parrocchia di montagna per la festa della pace. Poi era invitato con altri a pranzo dalla mia madrina.
Io avevo appena terminato l’università (medicina) a Padova e iniziavo ad avere molte domande e incertezze che non trovavano più risposta in famiglia, nella parrocchia e neppure all’università.
All’uscita della messa mi avvicinai con timidezza perché qualcuno me lo voleva presentare. Ricordo il suo sguardo luminoso, allegro, profondo e provocante mentre mi diceva: «Cosa fai quest’estate? Vieni con me in Brasile? Ti faccio conoscere Macondo!».
Quell’estate finii poi in Chiapas, in Messico, a vivere due settimane con delle ragazze indigene, un’esperienza indimenticabile.
Da allora grazie a Giuseppe e a Gaetano, ai viaggi, alle conferenze, alle letture e incontri con tanti amici di Macondo, ho capito che il viaggio più grande è quello che facciamo dentro di noi e nell’altro.
Paola Cavasin