La politica come educazione e apertura al futuro
Alexander Langer è tra i pochi della mia generazione che ha ancora molto da dire su ciò che dovremmo fare per affrontare le sfide del presente e del futuro.
Pacifista integrale e concreto, non ha mai avuto una relazione pacificata con il mondo: per questo è stato e resta un maestro di inquietudine.
Maestro più che politico, perché in tutte le sue attività ha sempre avuto un grande peso la dimensione educativa, il tentativo di operare in modo esemplare incarnando ciò che diceva.
Domandandosi perché suo padre non andasse in chiesa, nelle note autobiografiche del 1986 annota: «Mia madre mi spiega che mio padre è di origine ebraica e che non conta tanto in che cosa si crede ma come si vive».
Affermare con radicalità che ciò che conta è come si vive, ci aiuta a capire perché la scuola riesca così poco a educare. Noi adulti che la abitiamo, infatti, a partire dai più anziani ” cioè dalla generazione del ’68 ” ben poche volte siamo stati e siamo credibili quando ci rivolgiamo ai ragazzi perché le nostre parole sono spesso troppo lontane dal nostro esempio.
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Di Alex insegnante ci sono tre immagini che danno il senso del suo modo di stare con i ragazzi. Giovanissimo supplente a Bolzano, promosse uno sciopero della fame contro l’esclusione dalla maturità di due ragazze, riuscendo a farle riammettere all’esame. Di lui professore in un liceo di Roma dal ’77 al ’79, alcuni ex-allievi ricordano due momenti: come si fosse occupato con sollecitudine di due loro compagni arrestati, a differenza di tutti gli altri insegnanti, e la volta che, durante una manifestazione caratterizzata da scontri e violenze, non abbia esitato a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto ferito.
Stare sempre e comunque dalla parte della vittima a prescindere dal campo di appartenenza, avere cura verso chi è in difficoltà e battersi contro ogni forma di discriminazione sono sempre stati elementi fondanti non solo del pensiero di Alex, ma del suo operare concreto. Questo è il motivo per cui il suo ricordo è così nitido in chi lo ha incrociato.
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Oltre a vivere con pienezza quello in cui credeva, Alex incarnava molte antinomie che noi spesso non vogliamo vedere. Pur cercando di essere «facitore di pace», come qualche volta si definì, non ha mai trovato pace per sé stesso. All’inizio degli anni Novanta, di fronte al ritorno delle atrocità della pulizia etnica nelle guerre della ex-Jugoslavia, non solo non si è sottratto, ma ha cercato con tutte le sue forze di sostenere, dare fiducia e mettere in comunicazione tutti coloro che si ribellavano ai vincoli della propria appartenenza, cercando di creare una rete tra le minoranze capaci di «tradire» il loro campo. Essere traditori ma non transfughi verso la propria appartenenza etnica e religiosa, per Alex è sempre stata la scelta da valorizzare nelle terre in cui vivono comunità in conflitto. Sapeva bene che quest’opera non sarebbe riuscita a fermare la guerra, ma avrebbe potuto porre le basi per una pace futura, in cui lentamente si sarebbe potuto riannodare il dialogo tra le parti. Sono queste minoranze infatti che, con fatica, nel difficile dopoguerra stanno cercando di opporsi in Bosnia, e non solo, ai nazionalismi prevalenti contrapposti.
Alex ha ripetuto innumerevoli volte il suo motto contro la civiltà del più forte, più alto, più veloce, proponendo di agire più profondamente, più lentamente e più dolcemente o soavemente, ma lui la lentezza non l’ha mai praticata, travolto com’era dalle urgenze del mondo e dalle urgenze della moltitudine di gruppi o persone che nutrivano aspettative nei suoi confronti, a cui non ha mai saputo dire di no.
Alex aveva grandi capacità di sintesi e desiderava sempre concentrare in affermazioni icastiche la densità delle sue intuizioni. Riguardo all’etica necessaria oggi, suggerì di tornare a Kant, affermando una semplice regoletta, come lui amava chiamarla: ciascuno di noi deve vivere e comportarsi e consumare in modo che le sue scelte possano valere ed essere praticate da tutti i 7 miliardi di donne e uomini che abitano il pianeta.
È una proposizione di una tale portata, questa, da costituire una base fondamentale per qualsiasi opera educativa che voglia aprirsi al futuro con responsabilità.
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Alex aveva bisogno sempre di muoversi, partire, sporgersi e guardare oltre, sia fisicamente che mentalmente. Non era capace di sostare a lungo in un luogo, non tollerava la pausa, la vacanza, lo staccare. In questo incarnava i testi più radicali di Don Milani contro la ricreazione. E di Don Milani fu forse l’allievo ribelle più fedele. Ribelle, perché rifiutò di abbandonare l’Università come Lorenzo Milani gli chiese, fedele perché anche lui concepiva la vita come missione, la missione come assunzione totale di responsabilità e il risparmiarsi come peccato.
Per mobilità, sensibilità e insofferenza Alex somigliava ai migliori artisti. Quelli che nomina Grotowski quando affermava: «I cattivi artisti parlano di rivolta, i veri artisti la fanno. Rispondono all’ordine esistente con atti concreti».
La vita di Alex è stata piena di atti concreti di non collaborazione, piccoli e grandi. Per anni è stato obiettore di coscienza riguardo alle spese militari, autoriducendo le tasse che pagava in proporzione alle spese militari del bilancio dello Stato, e devolvendo il corrispondente a ONG impegnate sul terreno della pace.
Nel 1981 si oppose al censimento etnico obbligatorio in Sud Tirolo-Alto Adige, intuendo la pericolosa deriva che poteva provocare. Per questa scelta pagò dure conseguenze perché fu estromesso dalla scuola e, nel 1995, gli fu impedito di presentarsi alle elezioni come candidato alla carica di sindaco a Bolzano.
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Alex aveva una grande attenzione per le parole.
Anche se scriveva sempre di corsa, nei suoi articoli c’è sempre una grande attenzione al linguaggio. È sufficiente soffermarsi sulla sua proposta, straordinariamente attuale, di conversione ecologica, per intuire il suo desiderio di essere icastico, preciso e insieme capace di muovere il pensiero.
La conversione ecologica non è ristrutturazione, riforma e nemmeno rivoluzione. Non è un nuovo modello di sviluppo e nemmeno lo straordinariamente ambiguo sviluppo sostenibile, capace di mettere tutti d’accordo. La conversione ecologica proposta da Alex riguarda la trasformazione del contesto produttivo e sociale e, insieme, della coscienza individuale.
In questa sua grande attenzione alle parole c’è una forte carica pedagogica. Alex, perfetto bilingue, ha sempre dato grande importanza alla lingua e alle lingue, sostenendo che «parlare più lingue è una condizione pratica e metaforica della possibilità di essere qui e altrove. Si è tante volte uomini e donne quante lingue si conoscono».
A proposito del plurilinguismo come strumento e possibilità di comprensione della complessità del mondo, Alex racconta di un suo incontro con Ivan Illich scrivendo: «Ricreare un’aura di convivenza, di tolleranza dell’alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche.
Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall’intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli. Le lingue sono molto di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell’economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo, dice Illich. Ecco un esempio ” particolarmente inconsueto ” di un’opera di «ecologia politica», come Ivan Illich la definisce: ripristinare nelle nostre menti prima di tutto, e con una solida base storica, di quel che è stato, non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo, senza cedere al ricatto della semplificazione distruttiva in nome di imperativi economici».
Chiunque insegni nella scuola e si trovi a confrontarsi con classi in cui ci sia la presenza di alunni stranieri sa bene quanti danni provoca la semplificazione distruttiva che troppe volte accompagna l’apprendimento dell’italiano. Sarebbe importante che chi insegna riflettesse su quanta ricchezza si perda nel non dare valore alle diverse sensibilità e ai diversi modi di vedere le cose che si nascondono dentro alle diverse lingue, che necessariamente rimandano a diversi modi di pensare la vita e la storia.
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Alex era profondamente convinto che una Storia unica e condivisa da tutti non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi.
L’avere vissuto in una regione in cui due storie che riguardavano la stessa terra venivano raccontate in lingue diverse e da punti di vista radicalmente diversi, lo ha vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.
Ma tentare di fare politica pensando che un’unica Storia non esista comporta una sfida continua. Chi pensa che non esista la Storia con la lettera maiuscola, con tutte le giustificazioni di coloro che si nascondono e si proteggono dietro a quella grande S singolare, non può nemmeno pronunciare una frase come «danni collaterali».
Non può contare i morti usando i numeri. Se un’intera famiglia viene sterminata nel deserto dell’Iraq perché gli aerei intelligenti scambiano un matrimonio per un raduno di terroristi, questo non è un accadimento collaterale, un errore non voluto, ma un esito consustanziale alla guerra.
L’attenzione per le lingue minori in Alex va di pari passo con l’attenzione verso le storie delle minoranze e degli individui, perché il suo modo di guardare la geografia e la storia era pieno di persone in carne e ossa, con le loro vite e vicende e modi di vedere spesso irriducibili.
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Negli ultimi mesi della sua vita, nel momento più drammatico della guerra in Bosnia, Alex elaborò una proposta per la creazione di corpi civili di pace europei.
Nella stesura di questo manifesto programmatico, Alex compie ancora una volta lo sforzo di dare concretezza e attuabilità a idee-forza straordinariamente radicali.
La proposta precisa e articolata di dare vita nel nostro continente a un antiesercito è di una tale portata da costituire una base di lavoro per pacifisti e nonviolenti di oggi e di domani e ci apre anche a un’idea di Europa che potrebbe essere fatta propria da minoranze, oggi assai poco lungimiranti.
Ecco alcuni passaggi della proposta che elaborò nel 1995.
«Il corpo civile di pace agirà portando messaggi da una comunità all’altra. Faciliterà il dialogo all’interno della comunità al fine di far diminuire la densità della disputa. Proverà a rimuovere l’incomprensione, a promuovere i contatti nella locale società civile. (…) Promuoverà l’educazione e la comunicazione tra le comunità. Combatterà contro i pregiudizi e l’odio. (…) sfrutterà al massimo le capacità di coloro che nella comunità non sono implicati nel conflitto (gli anziani, le donne, i bambini)».
Ragionando su quali professionalità dovessero essere presenti, Alex propone di «sviluppare qualità di alto livello, necessarie per gli individui che partecipano al Corpo di pace: tolleranza, resistenza alla provocazione, educazione alla nonviolenza, marcata personalità, esperienza nel dialogo, propensione alla democrazia, conoscenza delle lingue, cultura, apertura mentale, capacità all’ascolto, intelligenza, capacità di sopravvivere in situazioni precarie, pazienza, non troppi problemi psicologici personali. Coloro che vengono accettati a far parte del Corpo di pace apparterranno alle persone più dotate della società».
Riguardo all’addestramento sottolinea: «il successo e il fallimento saranno anche determinati dal grado di addestramento delle persone del Corpo di pace. Programmi di addestramento prepareranno ciascun partecipante alla sua missione. Allo stesso tempo gli educatori dovrebbero avere la possibilità di essere stagiairs in missioni per acquistare esperienza sul campo. L’addestramento includerà la crescita della forza e della mentalità personale ma anche cose pratiche come la lingua, la storia, le religioni, le tradizioni e la sensibilità delle regioni dove si va a operare».
Poi, con la solita capacità di guardare con estremo realismo a ciò che accade, Alex aggiunge: «Un’operazione del Corpo di pace può fallire e nessuno si dovrebbe vergognare ad ammetterlo».
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«Finché non c’è alcuna soluzione politica, il Corpo di pace non può veramente partire. È essenziale che la cooperazione delle autorità locali e le comunità dovrebbe essere promossa da una politica internazionale di premio (e non da punizioni/sanzioni). Poiché la povertà, il sottosviluppo economico e la mancanza di sovrastrutture quasi sempre sono parte di qualsiasi conflitto, la preparazione a vivere insieme, a ristabilire il dialogo politico e i valori umani, a fermare i combattimenti e la violenza dovrebbero essere premiati da un immediato sostegno internazionale economico-finanziario a beneficio di tutte le comunità e regioni interessate. Troppo spesso ci si è dimenticati che la pace deve essere visibile per essere creduta. Ma se è resa vivibile la pace troverà molti sostenitori in ogni popolazione».
Fa impressione rileggere la lucidità di queste indicazioni, scritte anni prima dei disastrosi interventi dell’Occidente in Afganistan e in Iraq.
Esiste una solitudine del potere ed esiste una ben più diffusa solitudine dell’emarginazione e della discriminazione, che è la più terribile e ingiusta. Ma esiste anche una solitudine della sensibilità.
Per biografia, scelte e moralità, Alex ha vissuto il risorgere di conflitti etnici in Europa con una profondità e intelligenza capaci di cogliere le radici profonde e lontane di cui si alimentavano. Ha soprattutto intravisto, anni prima dell’11 settembre, l’ombra lunga che i moderni conflitti etnici e religiosi gettavano sul futuro. Nel trovare grandi difficoltà a condividere questo suo sentire, ha sofferto una grande solitudine. Un tratto particolare della sua intelligenza sottile e sensibile stava infatti nell’ampiezza della visione delle cose e nella lungimiranza di cui era capace.
Lungimiranza che ben poche volte è stata ascoltata e intesa come avrebbe dovuto.
Franco Lorenzoni maestro elementare, insegna a Giove, in Umbria, e vive ad Amelia, dove nell’estate 1980 ha fondato la Casa laboratorio di Cenci, centro di sperimentazione educativa.