Ci disse: dovete abbandonare l’università
Incontro con don Lorenzo Milani
Quando ero studente all’Università di Firenze, scoppiò in quella città la polemica tra don Lorenzo Milani (esiliato a Barbiana dall’arcivescovo Florit) e i cappellani militari, capeggiati da un profugo istriano che si diceva essere vicino all’Msi. I preti con le stellette avevano definito «viltà» l’obiezione di coscienza, allora punita senz’altro con il carcere, e avevano approfittato ” se ricordo bene ” dell’anniversario del Concordato lateranense tra Fascismo e Vaticano per riconfermare la loro vocazione statalista, patriottica e di appoggio alle gerarchie militari. Don Lorenzo Milani aveva risposto a loro su Rinascita, guadagnandosi ” insieme al direttore responsabile della rivista comunista ” un processo.
Personalmente ero fortemente tentato dall’idea dell’obiezione di coscienza e, al tempo stesso, spaventato dal rischio carcerario che essa avrebbe comportato; per intanto avevo risolto il problema con il rinvio per motivi di studio. Ovviamente il caso don Milani e la sua presa di posizione sull’obbedienza che non era più una virtù mi colpivano profondamente ed esprimevano una posizione morale ed esistenziale in cui anch’io mi riconoscevo. Volevo sapere di più su don Lorenzo Milani e venni informato di un suo libro uscito qualche anno prima e tolto dalla circolazione per disposizione dell’autorità ecclesiastica (sempre il medesimo Florit, succeduto al tollerante e lungimirante card. Dalla Costa, che era stato molto venerato da Giorgio La Pira). Mi feci dire il modo di procurarmi quel «semizdat»: bisognava andare alla Libreria Editrice Fiorentina, in via Ricasoli, individuare un certo libraio e dirgli con sguardo complice: «Sono uno dei ragazzi di don Lorenzo e dovrei prendermi il suo libro»; così feci, dopo di che ricevetti regolarmente una copia di «Esperienze pastorali», tolta dall’armadietto dei veleni. Era per me un libro di difficile lettura, perché fortemente ancorato ” anche nel linguaggio ” alla realtà toscana, dove per esempio gli operai godevano di un prestigio sociale infinitamente superiore a quello dei contadini: tutto il contrario del Sudtirolo, e quindi per me quasi incomprensibile, come molte delle parole usate nel libro («i pigionali», per esempio). Ma avevo capito una cosa determinante: che don Lorenzo Milani aveva deciso di voler parlare «ai poveri» e che, per poterlo fare, doveva prima «dare loro la parola»: così aveva deciso di fare scuola, come presupposto essenziale di evangelizzazione. Caduto in odore di filo-comunismo, era stato tolto dalla circolazione, come il suo libro: mandarlo a Barbiana, significava renderlo muto e isolato.
Con un amico andai a trovarlo, dopo lo scoppio della polemica sull’obiezione di coscienza. Ci ricevette nella sua canonica, rubando un po’ di tempo ai ragazzi e alla scuola. Due tra le cose da lui dette mi sono rimaste particolarmente impresse.
«Dovete abbandonare l’Università. Voi non fate altro che aumentare la distanza che c’è tra voi e la grande massa della gente non istruita. Fate piuttosto qualcosa per colmare quella distanza.
Portate gli altri al livello in cui voi vi trovate oggi e poi tutti insieme si farà un passo avanti, e poi un altro ancora, e così via. Ma se voi continuate a correre, gli altri non vi raggiungeranno mai.
So bene che potrete trovare altri ” anche preti! ” che vi diranno il contrario e che vi troveranno mille buone ragioni per continuare i vostri studi e per diventare dei bravi medici o giudici o scienziati al servizio del popolo. Ma in realtà sarete al servizio solo del vostro privilegio ” per curare le nostre malattie e per decidere le cause nei tribunali ci bastano i mercenari pagati, non c’è bisogno di voi».
Non lasciammo l’Università, ma davamo inizio a un doposcuola a Vingone, presso Scandicci, basato sul volontariato di parecchi universitari, e frequentato prevalentemente da figli di immigrati meridionali.
«Io so come andrà al giudizio universale. Il Signore Iddio chiamerà, insieme a me, davanti a sé il rettore del collegio… dei gesuiti a Milano. Dirà al rettore: «Vedi, tu sei stato sempre con i ricchi.
Hai fatto le loro stesse letture, hai condiviso la loro compagnia, sei stato loro commensale, hai educato i loro figli ” non puoi non essere diventato come loro. Hai sbagliato tutto, credendo magari di fare bene. Hai chiuso gli occhi davanti a coloro che rappresentavano me, e ti sei immedesimato nei loro oppressori. Guarda invece don Lorenzo, che è qui accanto a te: lui ha scelto unilateralmente. Lui ha capito che non si possono amare concretamente più di 3-400 persone, e ha scelto i poveri, i suoi campagnoli. Si è messo dalla loro parte, ha condiviso il loro mondo. Questo io vi avevo comandato, e tu non hai voluto ascoltare».
Ma siccome il Signore è buono, alla fine gli darà un calcio nel sedere e lo farà entrare nel paradiso, mentre io entrerò con tutti gli onori. Capite? Se voi state con i ricchi, non potete non diventare come loro, se non lo siete già».
A un certo punto don Milani aveva proibito l’accesso a Barbiana a tutti quelli che avessero un titolo di studio superiore alla terza media, a meno che non fossero chiamati esplicitamente da lui e per una funzione precisa (a me capitò solo una o due volte). Tra le rare eccezioni c’era un’anziana ebrea boema, laureata in matematica, sopravvissuta al periodo nazista grazie all’aiuto di amici toscani che l’avevano tenuta nascosta in montagna. Marianne Andre arrivava a Barbiana a piedi, con il suo zaino, e stava ad ascoltare in grande modestia, parlando solo quando veniva invitata a esprimersi. Diventammo amici e scoprii che aveva conosciuto mio padre. Dopo la morte di don Milani decisi di tradurre Lettera a una professoressa in tedesco e di cercare un editore (che ho trovato in Wagenbach), associando a questa impresa ” in particolare per la revisione del testo tedesco ” anche Marianne Andre che ne era molto felice.
La ragione del suo privilegio a Barbiana aveva una spiegazione semplice: era una perseguitata, che già aveva perso tutti gli altri suoi privilegi legati alla sua istruzione e condizione sociale.
Due cose mi avevano sempre incuriosito e non convinto in don Milani, ma non ho mai trovato il coraggio e l’occasione di chiedergliene ragione.
Avevo tentato di chiederlo, dopo la sua morte, a sua madre (che era sopravvissuta a lui, e che non si è mai fatta battezzare), ma mi ero poi arrestato sulla soglia di queste due domande, che quindi rimangono senza risposta.
Avrei voluto capire quale eredità don Milani aveva ricevuto e conservato dall’ebraismo, che lui aveva abbandonato per convertirsi a un rigoroso cattolicesimo.
E avrei voluto domandargli la ragione della sua (eccessiva, secondo me) fiducia nelle grandi aggregazioni (la chiesa, la Dc, i comunisti, il sindacato…), e della sua diffidenza e forse disprezzo per le minoranze (i «filo-cinesi», il Psiup di allora, gli «estremisti», le minoranze laico-radicali…).
Avevo capito che lui credeva molto nelle grandi culture popolari e nella necessità che le idee forti si facessero strada in modo non elitario tra le grandi masse. Ma ho sempre avuto il sospetto che questa impostazione facesse in qualche modo violenza alla sua stessa storia, tutta quanta: dalla sua origine, al suo cammino nella chiesa fiorentina, fino all’esilio di Barbiana e a quell’ultima sua disperata attesa di un cenno di riconoscimento e di apprezzamento da parte del suo vescovo e persecutore card. Florit.
Forse la prima domanda riceve implicitamente risposta dalla seconda, e dalla sua ostinata sottomissione alla legge formale della chiesa, vissuta con la tenacia del «popolo della legge» e con la caparbietà di un profeta che vuole indurre le corti e i sommi sacerdoti a cambiare strada.
tratto da Azione nonviolenta, giugno 1987.