Le vittime del sovranismo
Giovani, lavoratori, emarginati, stranieri
Sovranismi e nazionalismi che spuntano ovunque
Anche in questo El Sup Marcos (nel frattempo scomparso come tale e diventato nel maggio 2014 il subcomandante Galeano) ci aveva profeticamente azzeccato nel lontano agosto 1996, con la dichiarazione a conclusione del primo incontro intercontinentale per l’umanità e contro il neoliberismo, quando aveva detto che «il neoliberismo non fa diventare tutti i Paesi un unico Paese, ma fa diventare ogni Paese molti Paesi».
Gli ultimi decenni hanno confermato quella (facile?) profezia, esasperandone pure gli effetti: dalla crisi degli Stati-Nazione, diventati nell’impero di negriana-hardtiana memoria dei semplici esecutori di direttive economiche e conseguentemente politiche emesse da centri di potere nella maggior parte dei casi non eletti da nessuno (OMC Organizzazione Mondiale del Commercio, FMI Fondo Monetario Internazionale, BM Banca Mondiale), sono nati negli ultimi anni una serie di «ismi» (e come tutti gli ismi segno di degenerazione dell’originale…) come patetici e insieme drammatici tentativi di ridare potere a livelli organizzativi (gli Stati, le regioni, i lands…), ormai esautorati da qualunque vero controllo su loro stessi e su quanto li circonda perché travolti dalla globalizzazione delle merci e di conseguenza degli esseri umani (e questi «conseguentemente» e «di conseguenza» sono carichi di torsioni politiche non trascurabili!). È quello che Regis Débray, l’intellettuale francese noto anche per la sua avventura boliviana al seguito del Che, sintetizza nel suo libro del 2012 Elogio delle frontiere nell’aforisma «Mentre le merci si globalizzano, gli uomini si tribalizzano».
Degli emergenti sovranismi e nazionalismi, che stanno spuntando come funghi in Europa come «forme politiche originali, che mischiano autoritarismo antidemocratico, nazionalismo economico e razionalità capitalistica» (da Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo, appena pubblicato da DeriveApprodi e anticipato nella pagina culturale de il manifesto, 2 luglio 2019), supportati e amplificati ad arte dalle retoriche del sangue e della terra, a farne le spese sono come al solito e forse anche peggio del solito i tanti «poveri» di cui la globalizzazione neoliberista ha disseminato e continua a disseminare l’impero mondo.
Le povertà che si globalizzano
Le povertà hanno infatti smesso sempre più di essere segregate in contesti specifici, di Paesi regioni, città e classi, e si sono pure loro «globalizzate»: non essendoci più un «altrove» nella logica dell’impero, anche le estreme periferie sono arrivate al centro, o quanto meno hanno avuto e spesso continuano ad avere la loro ribalta, a ondate più o meno emotive. In questo momento le migrazioni ne sono la spettacolarizzazione più potente: narrano incessantemente di estreme povertà e impoverimenti tanto nei paesi di origine, le cui popolazioni non accettano più di essere le discariche di noi privilegiati del primo mondo, quanto lungo il percorso migratorio, caratterizzato da tappe infernali come quella nei centri di detenzione, tortura e stupro libici (finanziati dall’Italia e dall’intera Unione Europea!), quanto infine nella nostra Italia, dove le condizioni di vita di molti migranti, resi clandestini da leggi escludenti e «carcerogene» (ultimo in ordine di tempo e primo in termini di accanita barbarie il sedicente «decreto sicurezza» voluto e imposto a urla scomposte e rutti dall’attuale «ministro dell’inferno»), sono spesso peggiori di quelle nei loro Paesi natali.
Chi finisce nelle paludi delle povertà
Nelle paludi delle povertà stanno però finendo da tempo anche persone e famiglie che fino a qualche decennio fa godevano di un reddito che garantiva loro una vita dignitosa:
per la perdita del lavoro degli adulti, spesso in un’età in cui diventa pressoché impossibile riuscire a ricollocarsi in un mercato del lavoro sempre più strozzato e desertificato, che richiede quando va di lusso competenze che i 50/60enni non hanno mai acquisito;
per la difficoltà per i giovani di riuscire a trovare un’occupazione stabile o quanto meno di un certo respiro, costretti al precariato dei contratti super a termine quando non nel rosario infinito degli stages gratuiti («perché devono imparare») e alla migrazione interna o all’estero;
per il crollo del potere d’acquisto delle risicate pensioni sociali degli anziani, che stanno sempre più affollando nelle città le mense dei poveri o le code per la distribuzione di alimenti;
per il rischio, a cui tutti sono esposti, di sprofondare nella povertà a causa di una malattia cronica o grave, che toglie entrate personali e familiari e precipita in costi aggiuntivi per le cure e per tutto quanto concerne l’organizzazione dei trasporti e dei ricoveri spesso lontani da casa.
«Povertà in attesa», il Rapporto 2018 di Caritas Italiana sulla povertà e le politiche di contrasto, aggiornato al 2017 e presentato il 17 ottobre 2018 in occasione della giornata mondiale di lotta contro la povertà, raccoglie dati che ci rappresentano senza troppe vie di scampo questa tendenza ormai consolidata: una lettura anche solo della sua sintesiàreperibile online sul sito www.caritasitaliana.it ” offre una fotografia impietosa dell’impoverimento generale che stiamo quasi tutti subendo.
A questo quadro drammatico si aggiunge, nel nostro Bel Paese, negli ultimi anni, un sentimento via via montante, che si è estremizzato prima e soprattutto dopo le elezioni politiche del marzo 2018: il disprezzo.
Il disprezzo per i poveri
Il disprezzo, anzitutto, per chi vive in condizioni di povertà: prima di tutto come discredito, perché «se l’è cercata» dato che è un «fannullone» e quindi «se la merita»; poi come esorcismo e insieme paura nei confronti di una condizione che si spera riguardi solo gli altri, gli «sfigati», e che non riguarderà mai noi, che siamo belli, buoni e forti; infine come rimozione dal nostro orizzonte dell’umano e ghettizzazione nel recinto del «subumano», del «miserabile» che non è degno nemmeno del nostro sguardo, figuriamoci della nostra considerazione e vicinanza. La povertà, insomma, come una malattia contagiosa, un’infezione da cui stare alla larga pena il rischio di contaminarci, e per sempre.
Da questo disprezzo deriva quasi inevitabilmente ” ed è un dato nuovo ugualmente sconcertante (o forse ancor più?) ” anche il disprezzo per chi si occupa di loro a livello professionale o volontario: che dagli «imprenditori della paura» e quindi dalla gente comune viene accusato se va bene di «buonismo» quando non di essere una «mosca cocchiera» che vuole a tutti i costi fare rientrare nelle stanze buone dell’umano chi umano non è più (se mai lo è stato) e anzi attenta alla nostra superiore e ristretta rancorosa umanità; ne sono stati e sono ancora un esempio quanto mai attuale i continui scomposti attacchi alle ONG che salvano migranti nel Mediterraneo.
Chi ci salverà da questa deriva dell’umano? I poveri e quanti stanno con loro accompagnandone i difficili percorsi di riscatto. In nome e per fare crescere la nostra comune e per definizione variegata «umanità»!
Giovanni Gaiera
responsabile della Comunità Cascina Contina, Rosate (Mi)