Il diritto tra la vita e la morte: il “caso Cappato” e la posta in gioco
Un caso tanto drammatico quanto interessante
Ha fatto discutere, e continuerà ancora a farlo, la vicenda della morte, avvenuta quasi due anni fa, di Fabiano Antoniani, in arte DJ Fabo. Divenuto tetraplegico a seguito di un tragico incidente stradale, DJ Fabo aveva deciso di interrompere la sua vita, operazione per la quale è stato accompagnato in Svizzera – dove ciò è liberamente praticabile – da Marco Cappato, figura di spicco dei Radicali e dell’Associazione Luca Coscioni.
Per questo fatto Cappato è stato presto indagato e condotto a processo dinanzi al Tribunale di Milano per il reato previsto dall’art. 580 del Codice penale, che punisce, in primo luogo, «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Il Tribunale, però, ha rinviato alla Corte costituzionale la questione di legittimità di questa norma, sia perché sanziona allo stesso modo l’aiuto o l’istigazione, al di là della considerazione del contributo concreto che queste due condotte possano avere sul rafforzamento o sulla determinazione della decisione di suicidarsi, sia perché sanziona alla stessa stregua dell’istigazione anche le condotte di chi si limiti ad agevolare materialmente il suicidio, senza incidere sul processo decisionale dell’aspirante suicida.
Con una pronuncia davvero innovativa (del 16 novembre 2018), la Corte costituzionale ha, per così dire, deciso di non decidere, o meglio ha deciso di sospendere il suo giudizio fino all’udienza del 24 settembre 2019, in attesa che sia il legislatore, «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale», a prendere posizione e a risolvere con ciò, nella sede evidentemente più idonea, le molteplici e compresenti «esigenze di tutela» che la stessa Corte ha evidenziato.
In particolare, la Corte, da un lato, ha precisato, ragionevolmente, che, in linea di principio, non deve considerarsi come di per sé incostituzionale la scelta di incriminare l’aiuto o l’istigazione al suicidio (perché funzionale «alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio»); dall’altro lato, tuttavia, ha evidenziato, altrettanto condivisibilmente, che oggi esistono situazioni del tutto «inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali»: è la considerazione di queste situazioni che, sempre secondo la Corte, può portare l’incriminazione dell’aiuto al suicidio a rivelarsi incostituzionale, dal momento che, proprio in questi frangenti, «l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare».
Diritti, bilanciamenti e procedure
Sono chiare dunque, le ragioni per le quali il giudice costituzionale ha optato per dare una chance al nostro Parlamento, affinché provi a regolare in modo sufficientemente articolato il difficile contemperamento tra gli interessi in gioco e, soprattutto, a conciliare la protezione dei più deboli con l’esigenza di individuare luoghi, presupposti, procedure e modalità operative per salvaguardare i diritti del malato.
Se è vero che esistono interessi che sono scientificamente e tecnologicamente condizionati ” nel senso che la loro rilevanza e la loro stessa valutazione può assumere, in forza di tale condizionamento, un peso diverso per il diritto, e quindi per i diritti delle persone ” allora è altrettanto vero che le scelte che a essi sono correlate, proprio perché intrinsecamente variabili e potenzialmente progressive, oltre che soggettive, meritano una disciplina completa e accurata, e non sono suscettibili, dunque, di alternative secche o di soluzioni «ortopediche».
Si tratta, in altri termini, di costruire un pezzo intero di un nuovo diritto sanitario, ed è per questo che i giudici ” che pure, dal caso Englaro in poi, sono stati finora i veri primi attori dell’evoluzione del «diritto della vita e della morte», avendo già spinto, di fatto, il nostro legislatore ad approvare la fondamentale legge n. 219/2017 («Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento») ” si arrestano per un attimo e invocano l’intervento naturale del Parlamento: di chi, per l’appunto, ha per suo compito istituzionale la potestà di creare le nuove regole giuridiche della comunità e di bilanciare, a questo fine, tutte le istanze di volta in volta rilevanti.
Occorre tener presente anche un altro aspetto: nel caso concreto, la Corte costituzionale, se si fosse attenuta ai suoi più tradizionaliàpoteri, si sarebbe trovata di fronte al rischio, per un verso, di non fare davvero giustizia, per altro verso di non dare alcun segnale effettivo al legislatore. Non avrebbe fatto giustizia, a ben vedere, perché sarebbe stata costretta o a dichiarare inammissibile la questione (coinvolgendosi aspetti in cui è la discrezionalità del legislatore a dover intervenire, per l’appunto, in via prioritaria) o ad accoglierla mettendo direttamente mano al testo del Codice penale (e dando, così, luogo a un bilanciamento probabilmente incapace di offrire soddisfazione a tutte le «esigenze di tutela» sopra descritte). Ma non avrebbe neppure stimolato a dovere il legislatore, perché nell’un caso si sarebbe potuta spingere a un semplice monito (in passato più volte disatteso…), nell’altro caso, con tutta probabilità, avrebbe indotto, o addirittura incoraggiato, nella classe politica, e nell’organo costituzionale in cui essa dev’essere protagonista, un contegno apertamente deresponsabilizzante.
Responsabilità e scrittura
Sia chiaro: la decisione della Corte, anche tra i giuristi, ha sollevato un certo dibattito, nel quale si potrebbe interagire a lungo. D’altra parte è da un po’ di tempo che il giudice costituzionale italiano sta sperimentando apertamente tecniche molto particolari di «gestione» del processo che è chiamato ogni volta a condurre, con esiti, pertanto, che fanno discutere per definizione. Tanto più che queste tecniche ” pure diffusissime e accettate in molte esperienze di giustizia costituzionale nel mondo ” poggiano per lo più la loro giustificazione sostanziale su profili di crisi dell’ordinaria fisiologia dei poteri.
Proprio questo, però, è il punto. La vera posta in gioco del «caso Cappato» ” ed è, come si è ricordato, la vera posta in gioco di buona parte dell’anno che è appena cominciato, visto che la Corte tornerà a pronunciarsi in autunno… ” è tutta racchiusa nella possibilità di riattivare la completezza e la consapevolezza di un circuito democratico che pare, viceversa, irrimediabilmente compromesso; di un circuito, cioè, che, specie dal debutto della cd. «Seconda Repubblica», all’inizio degli anni Novanta, si è fatto sempre più cavalcare, se non strumentalizzare, dalle urgenze della più contingente agenda politica, quella del consenso a brevissimo termine e, più recentemente, dei contratti di governo da portare il più rapidamente a esecuzione, anche quando le parti contrattuali sono così reciprocamente distanti dal voler persistere, paradossalmente, nell’eseguirlo soltanto ed esclusivamente in via cinicamente unilaterale.
Sicché l’interrogativo non può che essere spontaneo: sarà in grado il Parlamento ” pur pressato, come è noto, dall’incombenza sempre più gravosa di impegni economico-finanziari ormai quasi insostenibili… ” di rispondere alla sollecitazione espressa dalla Corte costituzionale? Il che equivale a chiedersi: sarà in grado l’organo sovrano di fare finalmente l’organo sovrano, e di riappropriarsi coscientemente della centrale e irrinunciabile funzione di termometro di tutti i diritti costituzionalmente garantiti?
Perdere una simile occasione significherebbe fornire deliberatamente lo spunto a una nuova stagione di conflitto tra giustizia e politica, lasciando alla prima il compito di tutelare ciò che essa può garantire solo in modo frammentario e incompleto, e alla seconda il ruolo di dirimere contrasti esclusivamente elettorali.