Quando l’obbedienza non è più una virtù
Quando due diversi punti di vista, due concezioni delle cose e dell’ordine che le regola viaggiano su binari paralleli supportati da dimostrazioni e motivazioni innegabili e tali da eludersi vicendevolmente, allora due sono le vie da perseguire: una dialettica che porta al progresso e all’evoluzione in senso positivo delle problematiche iniziali e l’altra che sfocia nel tragico, nella mancanza di soluzione che genera una tensione distruttiva. Tali sembrano essere state le dinamiche che hanno dato vita al dibattito, anzi allo scontro, sull'”obiezione di coscienza” culminando nella drammaticità che il carcere o un processo possono rappresentare. Don Milani, con la sua risposta all’ordine del giorno redatto dai cappellani militari l’11.2.1965, obietta la loro presa di posizione così forte e perentoria, obietta “l’insulto” e la “viltà” riferiti a chi invece è stato insultato per il coraggio della propria scelta: la coscienza di maestro e di sacerdote non gli permetteva di rimanere zitto. E il conseguente processo non è che la prova della sua estrema coerenza, della sua rinuncia ad ogni tipo di scudi giustificatori per risvegliare, con il fragore dell’azione giudiziaria, le menti abituate a delegare oneri e onori.
Esso rappresenta allo stesso tempo il punto di frattura e di continuazione tra una mentalità basata sull’obbedienza e una nuova concezione della società che mette in discussione gerarchie e valori. È una piccola rivoluzione che capovolge il gioco delle parti sostituendo all’assoluta certezza fornita dalle istituzioni e dalle leggi la coscienza personale. Ciò non significa distruggere l’ordine sociale secondo un principio (“l’uomo è misura di tutte le cose”) che già gli antichi avevano scartato come ipotesi per la realizzazione dello stato ideale, ma è un atteggiamento critico costruttivo che tende al miglioramento delle condizioni di partenza.
Don Milani aveva intuito che lo sviluppo in senso democratico di un paese si riscontra nella capacità di un singolo cittadino di saper scegliere, di saper votare, di avere una coscienza politica, cioè la disponibilità e la capacità di cogliere il bene comune anche a discapito del proprio. E in quale ambito migliore per il cittadino dimostrare di essere tale, se non nel servire la propria patria? Ma l’obbligo prima di tutto costituzionale e quindi civico di difendere le proprie radici, la propria sopravvivenza, la propria fede, tramortiva ogni tipo di titubanza o, in altre parole, di dubbio su cosa fosse realmente giusto fare. Schiacciate dall’evidenza di un ideale di coraggio, generosità, sacrificio per la salvezza di qualcos’altro o qualcun altro, generazioni di uomini-soldati sono state costrette a gettarsi nella guerra, alla ricerca assurda di vita e di salvezza nella morte. E chi si opponeva a questa logica massacrante era considerato un disertore punibile di morte prima ancora che un vile, anche se in verità non si distinguevano i coraggiosi davanti all’alternativa tra morte e morte. “L’obiezione di coscienza è espressione di viltà” recita il documento approvato dai cappellani militari della Toscana; rimangono fino all’ultimo fedeli alla linea sacra o forse sacrilega, perché profana il diritto alla vita, dell’obbedienza militare ma forse anche loro più per l’impossibilità di cambiare le cose che per decisione: l’imposizione non lascia alcuna libertà.
Mio nonno marciava in Albania a vent’anni: era alpino; gli avevano detto che Dio benediceva la sua abnegazione e permetteva le irregolarità e gli “apparenti” controsensi della guerra. Lui credeva in Dio non nella guerra; credeva nel bene non nell’obbedienza; nondimeno ha dovuto credere anche in quella, pena la morte. Questa è la dimostrazione che già allora l’obbedienza non era una virtù, poiché era priva di ciò che per definizione la virtù possiede: il merito dettato dalla scelta cosciente e l’aspirazione al bene.
Don Milani ha trovato commiserazione per quegli obbedienti e dolore per la loro virtù spogliata di ogni valore e significato. E se questa negazione di dignità era legittimata da una legge, espressione massima di civiltà e di umanità, allora voleva dire che le cose andavano cambiate. Allora bisognava riflettere sull’onnipotenza della giustizia umana: se le premesse di un reato contestato come “disobbedienza di coscienza” fossero o meno valide e con quale misura si dovessero considerare.
Secoli di filosofia politica hanno cercato, proprio dalla morte di Socrate e dal suo “conosci te stesso”, di conciliare soggettività (esigenze e libertà del singolo) e oggettività (ordine ed imparzialità della struttura sociale) e le risposte sono l’organizzazione stessa del nostro mondo: difficile. Non siamo una somma di numeri, ma una correlazione di cellule umane: come il nostro corpo. E se è dall’esercizio del dovere che nasce il diritto allora tutte insieme respireremo, ci contrarremo, circoleremo e ognuna, contribuendo alla salute dell’intero organismo, avrà garantito la vita di tutte le altre. Penso che lo stesso accada allargando la prospettiva fino a raggiungere la sfera politica, passando per la dimensione individuale della moralità. Prendersi le proprie responsabilità e decidere in prima persona delle proprie azioni, compresa quella di servire la patria con il servizio militare o in altri modi, assicurano la vitalità dello stato e la conservazione dei diritti naturali di ognuno nel tessuto della comunità.
Ci si può facilmente rendere conto di come quella ipotizzata da Don Milani sia una radicale rivalutazione dell’uomo e del cittadino: non più suddito né schiavo, ma con la concreta possibilità di fare politica, cioè di impegnarsi per migliorare le leggi umane. Una cosa impensabile per un contadino della bassa veronese che sapeva di onestà e coerenza e gli bastavano, che aveva rischiato in guerra la propria vita, la fede, le speranze, ed era tornato a casa sua per nascondersi come un ladro. Forse anche mio nonno riteneva l’obiezione di coscienza un insulto, una presa in giro, un rinnegare il dolore passato: la scelta di comodo delle nuove generazioni. Non lo biasimo se penso a com’è difficile guardare al futuro e staccarsi dalle convinzioni che col tempo sono diventate pregiudizi. Ma il corso della storia ha dato ragione molto più spesso agli innovatori che ai conservatori: la tecnologia, la democrazia ne sono un esempio. Oggi la terminologia “obiezione di coscienza” sta per essere sostituita da “servizio civile”, è una regolamentazione ulteriore che non presuppone più la violenza e lo scontro insiti nell’atto di obiettare. Un’altra meta è stata raggiunta, un’altra utopia resa possibile e fatta diventare normalità.
Probabilmente come tante conquiste che vengono lasciate in eredità a chi non ha lottato per raggiungerle e quindi non ne comprende tutto il valore, anche questa preziosa alternativa verrà sfruttata, fosse dissacrata, certo usata a proprio vantaggio. Ciascuno, però, dovrà sentirsi “l’unico responsabile di tutto”, cioè padrone della propria coscienza e libero di esercitare, o di affidare ad altri, i diritti e i doveri di cui può godere o soffrire. Anche davanti alla guerra, soprattutto se è una guerra vera che bussa alle porte di casa: ognuno misura se stesso nelle proprie paure e di fronte a Dio.