Genesi di una espressione
Ogni volta che una nuova parola, una nuova espressione, un nuovo modo di dire inizia ad affermarsi nel discorso pubblico compaiono anche ciclicamente lo stesso tipo di polemiche: «C’è davvero bisogno di questa nuova parola?», «Non abbiamo già espressioni in italiano che servono per coprire questo concetto?», «Che parola orrenda!».
Credo che quando una nuova parola appare all’orizzonte, bella o brutta che sia, probabilmente qualche ragione c’è; probabilmente esiste qualche nuova pratica, tecnologia, moda, che non era ancora stata descritta sufficientemente bene. Pensate alla parola «apericena», per esempio. È brutta? Sì, forse. Serve a qualcosa? Decisamente sì.
Se volete prendere un aperitivo in un posto ed essere sicuri che assieme alla bevanda vi arriverà una quantità di cibo sufficiente per cenare, quella è la parola che state cercando. Potrà anche non piacere ai puristi, però «sai voglio andare in un posto dove oltre che a una bevanda mi portino anche cibo ma che non sia solo stuzzichini voglio proprio cibo che mi consenta di non spendere altri soldi per cenare» è decisamente più lungo.
Per avvicinarsi al campo oggetto di questo articolo la stessa cosa è successa anche con la parola «selfie». «C’è davvero bisogno di questa parola?», «Ce l’abbiamo già in italiano, è autoscatto, non possiamo usare quella?». Ecco, no. Il selfie non è un autoscatto. Il selfie è una foto fatta grazie alla fotocamera anteriore di uno smartphone, che consente al suo proprietario di scattarsi una foto da solo, guardando direttamente nello schermo il risultato che sta ottenendo. Questa pratica ha cambiato completamente il modo di fotografarsi negli anni dieci del ventunesimo secolo, e quando i nostri posteri guarderanno alle foto scattate in questo periodo si accorgeranno che è successo qualcosa, sono fatte diversamente. Ecco, quelli sono i selfie.
E le fake news? «Ma ci sono sempre state, sono le balle!», «In politica sino dai greci si è sempre studiata l’arte di raccontare bugie in pubblico, cosa è la retorica in fondo?».
Ecco, di nuovo, no.
Con fake news si intende la possibilità di generare notizie false, per scopi economici e politici – spesso entrambi – sfruttando le architetture fornite da internet e, specialmente, dai social media.
Quindi, nonostante quello che molti sostengono (la pagina Wikipedia italiano sul tema non è d’aiuto in questo senso), fake news è un termine molto specifico, che definisce un fenomeno intrinsecamente connesso con lo sviluppo tecnologico, reso da esso possibile solo nell’ultima decade.
Quali sono i suggerimenti generalmente indicati per provare a risolvere questo problema? Sostanzialmente le soluzioni proposte girano intorno a due approcci, quello tecnologico e quello pedagogico. Quello tecnologico crede che la soluzione stia nel contrattare con i giganti dell’informazione contemporanea (Google, Facebook, Twitter), delle procedure che rendano quantomeno più difficile il proliferare di notizie palesemente false. Qualcosa in tal senso si sta muovendo, soprattutto da un paio di anni a questa parte. L’elezione di Trump negli Stati Uniti, e lo scandalo di Cambridge Analytica ha reso soprattutto Facebook più sensibile su questo tema, ma al momento una soluzione definitiva è molto lontana dall’intravedersi.
L’approccio pedagogico dà importanza all’istruzione di stampo classico; sostanzialmente persone con un più alto grado di istruzione sarebbero in un qualche modo più vaccinate (forse ho scelto la parola sbagliata) per identificare la nascita di notizie false sulla rete.
Anche qui, però, i dubbi sono molti. Per rimanere al panorama italiano, infatti, il corpo insegnante della scuola dell’obbligo è composto in gran parte da persone – vuoi per una questione di età media anagrafica piuttosto avanzata – che non hanno molta dimestichezza con la comunicazione digitale e che molto spesso sono cadute in prima persona in bufale evidenti sulla rete (basta iscriversi a uno dei tanti gruppi insegnanti su Facebook per rischiare di perdere la fiducia sul loro contributo nello sconfiggere la falsa informazione online).
Che fare?
Posso solo dire che non lo so, e ho come il sospetto che chiunque proponga soluzioni facili in questo momento storico stia prendendo in giro il suo uditorio. È probabile che la soluzione sarà una combinazione dei due paradigmi sopra proposti, in una proporzione che ora non è davvero facile quantificare. Certo è che ci troviamo nel mezzo di una rivoluzione mediatica e sociale davvero estesa, di cui facciamo ancora fatica a identificare i contorni.
Oscar Ricci
assegnista di ricerca,
dipartimento di sociologia e ricerca sociale,
università di Milano Bicocca