Prima l’uomo, anche oltre la post verità

di Kettmeier Michele

Io sono la verità, dice Gesù a Pilato; e Pilato, che ha la mente altrove, risponde: cosa è la verità?

Anche noi ci ripetiamo spesso cosa sia la verità. La risposta o comprende una verità astratta, oppure una verità che viene costruita dagli uomini nelle relazioni gratuite. Ed è questa una verità che salva, che dà senso, perché è accogliente e misericordiosa. Non ti misura, ma semmai si misura con l’altro. Non spadroneggia, ma si fa servizio dell’altro ed è la strada che porta alla vita e non al sopruso.

Sul controllo di vero/falso: Cervantes

La discussione intorno al concetto di verità nasce con l’uomo. Lungo la strada della storia troviamo migliaia di questi esempi storici, tra verità e bufale. Nel 1500 Cervantes fa il fact checking (quindi prova a raccontare cosa è vero da cosa è falso) nel Don Chisciotte. Un autore anonimo, visto il successo del primo libro del don Chisciotte, scrisse il seguito della storia e perciò Cervantes, per sbeffeggiarlo e ricondurre la post verità a verità, scrisse il proprio secondo volume. Don Chisciotte modifica quindi il suo percorso andando a Barcellona, invece che a Saragozza, per marcare la differenza rispetto al racconto del testo del falso Don Chisciotte e dimostrarne quindi la falsità. Alla fine del romanzo, Cervantes fa morire Don Chisciotte per essere sicuro che nessun altro falso possa essere scritto, stampato e letto.

Cervantes arriva alla censura della vita impedendo ai suoi lettori di leggere un’altra menzogna quando si accorge che nei libri si trovano falsità, quando si accorge che gli stampatori non sono sempre portatori di veridicità.

Stampatori, editori

Del resto anche la storia della stampa ci racconta qualcosa sul rapporto tra il vero e il falso. Gli artigiani stampatori, subito dopo Gutenberg, si organizzarono in corporazione e iniziarono così a gestire il processo di creazione e commercio dei libri, costringendo le istituzioni a elaborare un sistema di autorizzazioni e registrazioni allo scopo di rendere affidabile e responsabile il loro operato.

Se andate a Londra e cercate Stationers’ Hall, troverete dei registri con titoli di libri e relativi stampatori; fu quello uno dei primi modi per rivendicare il contenuto di un libro. Nacque così l’identità della stampa.

La storia della stampa è lunga. Basti qui sapere, per brevità, che gli stampatori attraversarono varie vicissitudini storiche ed economiche per trasformarsi poi in editori. Un editore con un idea e un’identità precisa dava la possibilità agli autori di veder pubblicato il proprio lavoro. E così in teoria funziona ancora oggi. Non esiste e non deve esistere, nell’ecologia dei media e nell’epoca dell’infosfera, distinzione tra vecchi e nuovi media. Come non ha senso parlare di sorveglianza. Perché i social network dovrebbero essere sorvegliati in maniera diversa da una piazza, da una strada o da un giornale? E i giornali da chi sono sorvegliati? Grazie alla democrazia, eccetto la diffamazione, chiunque può scrivere qualsiasi cosa su ogni cosa e su tutti e speriamo rimanga così. Naturalmente vale sia per i vecchi che per i nuovi media.

Verità razionale e verità relazionale

Se nel 2016 l’Oxford Dictionary ha introdotto il neologismo «post verità», ossia il fatto che non sia così importante discutere intorno a un tema dirimendo il vero dal falso. Se si considera poi che questa espressione è stata eletta parola dell’anno, forse dobbiamo iniziare a porci delle domande non tanto sull’informazione e sui social network, quanto piuttosto sul nostro modo di essere comunità e delle relazioni che la abitano. La globalizzazione e il web danno la sensazione di essere dentro un mondo completo, che tutto sa e tutto conosce, dati e verità compresi. E dà la sensazione di essere a contatto con delle intelligenze, delle memorie e delle organizzazioni potenti, che tutto sanno e tutto conoscono.

Ma è una verità incompleta perché è una (post) verità razionale e non una verità costruita nella complessità e nello sforzo di mettere insieme i pezzi per comprendere e avanzare, insieme.

La rete e i media creano una verità razionale, ma non è di quella che c’è bisogno nel passaggio a una nuova e per ora misera epoca. Abbiamo bisogno piuttosto di una verità non razionale, ma relazionale. Certo, dei buoni metodi aiutano. Così come la continua ricerca per fare buona informazione e per dare alle nuove generazioni strumenti di lettura critica dell’informazione. Trovare le fonti è un buon inizio, documentare il fatto anche. Stare nella legalità, nell’accuratezza, nella trasparenza pure.

Serve però anche assumersi la responsabilità di quello che si scrive e si produce. Essere predisposti nell’animo per imparare nella relazione, anche nelle discussioni su Facebook o Twitter. Il modo in cui decidi di metterti a discutere modifica il modo in cui concepisci l’oggetto della discussione. Se discutiamo solo per vincere, tutte le argomentazioni dell’altro ci sembreranno comunque sbagliate. Più discutiamo per imparare e più sentiamo che non c’è una verità unica e oggettiva. Quindi a seconda di come ci approcciamo decidiamo se vogliamo condividere o no, decidiamo se vogliamo stare in un mondo di verità o nella post-verità, ossia nella condizione per cui la verità non ha più alcuna importanza.

Testimoni di verità

Perché la conoscenza non è una virtù, diventa tale nel momento in cui non preclude le aperture, non ostacola i confronti. E i confronti non servono per vincere, ma per entrare in rapporto con gli altri, altri mondi e altre culture. Le domande che vengono poste dalla fame, dalle carestie, dalla scienza, dal cambiamento del clima, dall’uso diverso della logica e dell’intuizione, possono essere affrontate solo entrando in relazioni con altri mari e con altri popoli. Solo così capiremo e faremo nostra la frase di Gesù: «Io sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità».

Michele Kettmaier
mediacivici.it, kitzanos.com
prova a imparare e scrivere tra umanesimo e
tecnologia, di media civici e blockchain, politica e poi la bici