Il futuro della democrazia

di D'Ippolito Diego

«Inutile dire che il controllo pubblico del potere è tanto più necessario in un’età come la nostra in cui gli strumenti tecnici di cui può disporre chi detiene il potere per conoscere capillarmente tutto quello che fanno i cittadini è enormemente aumentato, è praticamente illimitato». Siamo agli inizi degli anni ’80 e Norberto Bobbio in una delle sue più importanti opere, Il futuro della democrazia, metteva in ordine alcuni principi del suo pensiero. La sua intenzione non era dare risposte, ma spunti di riflessione, visioni che si dimostreranno perfettamente attuali.

Le vite degli altri

«Se mi chiedete se la democrazia abbia un avvenire e quale sia, posto che l’abbia, vi risponderò tranquillamente che non lo so», scriveva Bobbio. Ed è esattamente quel dubbio che si dovrebbe porre chi ha l’intenzione seria di ridisegnare i profili della democrazia nel primo ventennio di questo nuovo secolo. Bobbio scriveva queste parole negli anni in cui erano ancora alti i muri a divisione delle ideologie, mentre oggi si alzano e si fortificano per dividere i popoli e destini.

Un periodo in cui, per acquisire informazioni su «le vite degli altri», era necessario mettere in moto un imponente apparato di uomini e strumenti. E così per lunghi anni la storia dei due universi opposti è corsa sul filo delle informazioni. «Se ho manifestato qualche dubbio che la computer-crazia possa giovare alla democrazia governata, non ho alcun dubbio sul servizio che può rendere alla democrazia governante. L’ideale del potente è sempre stato quello di vedere ogni gesto e di ascoltare ogni parola dei suoi soggetti (possibilmente senza essere né visto né ascoltato): questo ideale oggi è raggiungibile. Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il più democratico dei governi può attingere dall’uso dei cervelli elettronici».

Sono passati molti anni e la visione di Bobbio risulta essere ancora quanto mai attuale.

Nemmeno si poteva immaginare la velocità con la quale si sarebbero raggiunti risultati nel campo dell’informatica. Non era nemmeno ipotizzabile pensare che oggi i processori sarebbero stati un’estensione del nostro corpo. Nemmeno un grande intellettuale come Bobbio avrebbe però potuto immaginare che quell’esercito di spie, oggi digitali, potesse essere sotto il controllo privato e che spesso sfuggisse al controllo opportuno dei governi.

Diventare profilo, consumatori, valore

La rivoluzione è in atto ormai da tempo ed è difficile immaginare che non fosse possibile regolamentarla già alcuni anni fa. Eppure, lo strumento legislativo non solo si è dimostrato tardivo ma totalmente disomogeneo. Mentre la rivoluzione correva su canali globali facendo sponda tra i due mondi che prima non si parlavano, localmente, il gap temporale per intervenire con una regolamentazione si faceva colpevolmente sempre più ampio.

Poco più di dieci anni fa, abbiamo iniziato a condividere i nostri sentimenti, le nostre informazioni, le nostre foto, le nostre mutevoli idee in rete. Scrivevamo, senza volerlo capire, la nostra storia, davamo corpo ed emozioni alla nostra carta d’identità, diventavamo profilo, consumatori, valore.

Provate a chiedere a un gruppo di persone come mai, nonostante i social network siano gratuiti, abbiano valori in Borsa così elevati. Quasi tutti risponderanno: «c’è la pubblicità». Questo è oggettivo e lampante. Ma la domanda vera è: quale pubblicità? È noto che degli algoritmi siano in grado di proporci prodotti commerciali vicini ai nostri gusti. Gusti che nel tempo abbiamo manifestato scrivendo la nostra storia sui social e sulla rete. È noto che la profilazione permetta di targettizzare meglio i consumatori. È noto che per le aziende questo sia un vantaggio in termini commerciali.

E così con il tempo le inserzioni sono cambiate, le risorse economiche spostate, alcuni settori sono entrati in crisi, altri ne hanno beneficiato e questo può rientrare a pieno titolo all’interno di quel processo che Joseph Schumpeter definiva «distruzione creativa». Ed ecco la risposta al perché alcune delle società che gestiscono i social network siano tra le più ricche e in crescita al mondo. Fin qui possiamo dire di essere nel campo dell’indagine economica, di un percorso che deve ancora trovare risposte a molti interrogativi quali le nuove competenze, il mutamento del mercato del lavoro e la necessità di chiarire una volta per tutte come dovrà realizzarsi la redistribuzione. Quanto e dove dovrà essere restituito in termine di tasse? Su questo punto sarebbe il caso di accelerare i tempi drasticamente.

La principale fonte di informazione

Provate ora a porre una seconda domanda che pare non correlata alla prima, ma che in realtà lo è in maniera assolutamente complementare: «Qual è la vostra principale fonte di informazione?».

«Quasi la metà dei cittadini dell’UE (circa il 46% nel 2016) si informa sui social media senza controllare l’attendibilità delle fonti: sei notizie su dieci vengono condivise senza essere state lette» – ha scritto in un comunicato il parlamento europeo a margine di una discussione sulle fake news.

Il trend è in crescita e dunque ciò che era nato per condividere foto ed emozioni oggi è la principale piattaforma di informazione. Aperta parentesi: lo spostamento degli inserzionisti, delle informazioni, la scarsa domanda di autenticità delle fonti, la sempre più scarsa disponibilità a spendere per leggere, ha scaraventato in una crisi profonda quelli che vengono chiamati «media tradizionali». A ciò si unisce il pensiero ormai maggioritario che i media non debbano essere finanziati dallo Stato e, per carità, i macroscopici errori del passato giustificano questo diffuso umore, ma molto presto sarà necessario tracciare una linea e cercare di capire quanto questa scelta sia stata o meno felice. Chiusa parentesi.

Se i social sono un campo infinito dove poter condividere sé stessi e il mondo che ci circonda, ecco che per le informazioni si apre uno spazio senza limiti. Se poi per lungo tempo non sono praticamente esistiti paletti alla veridicità di quanto riportato, ecco che si è sviluppato il fenomeno delle fake news. Quanto scritto dal parlamento europeo sul perché le fake news vengano create e poi diffuse è sintetico, ma efficace per rendere un’idea coerente: «Il clickbait o anche acchiappa-click sono quei contenuti online il cui scopo principale è attirare l’attenzione dell’internauta e generare traffico verso una determinata pagina web, quindi produrre guadagni dalle pubblicità. La «disinformazione» attraverso contenuti ingannevoli è creata appositamente per influenzare l’opinione del lettore».

La politica: da governante a governata

Il primo motivo rientra dunque nella sfera economica (primo micro tema di questo articolo), il secondo in quella politica-sociologica (secondo micro tema).

È evidente che la lentezza con cui le istituzioni hanno affrontato questo tema non potrà che alimentare le disfunzioni. Il grande economista e sociologo americano Thorstein Veblen sosteneva che le istituzioni si evolvono per andare a regolamentare i rapporti tra uomini all’interno della società e che l’adeguamento riscontra un ritardo dovuto alle resistenze al cambiamento. Maggiore sarà il ritardo che le istituzioni matureranno nella loro evoluzione, maggiori saranno i costi sociali.

A oggi, questi costi non sono facilmente misurabili, ma alcune evidenze ci portano senz’altro a una riflessione. La possibilità di poter tracciare dei precisi profili comportamentali attraverso l’utilizzo dei dati ha aperto la strada verso una nuova idea di «elettore». Un’enorme mole di dati e modelli predittivi sono fattori che se congiunti sono oggi in grado di poter influenzare le nostre scelte non solo commerciali, ma anche politiche.

Non è questo il luogo per un approfondimento più «tecnico» sul tema che è possibile comunque affrontare sia in rete che attraverso le non molte pubblicazioni, ma lo è semmai per una riflessione sul futuro della democrazia così come aveva proposto anche Bobbio.

Gli ultimi risultati elettorali a livello globale, da quello negli Stati Uniti, passando per la Brexit, fino all’escalation del sovranismo nel nostro continente, ci pongono davanti a una riflessione non più evitabile sul ruolo che in questi anni ha giocato la «rete» nelle nostre relazioni sociali, nella determinazione delle nostre scelte commerciali, nella classificazione dell’ordine delle nostre priorità, nella nostra percezione dei problemi. In questo nuovo ordine dovrebbe giocare un ruolo fondamentale la politica che non risulta più governante, ma bensì governata dal fenomeno.

Sembra banale, ma è necessario riuscire a isolare chi utilizza i dati in maniera sbagliata, tracciando esatti confini tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.

A oggi quasi la metà del traffico internet è generato da dei Bot che ripetono operazioni per migliorare e rendere più efficiente la nostra navigazione, ma anche Bot che eseguono operazioni continue di diffusione di notizie false attraverso la creazione di profili fake. Ecco, in questo caso è abbastanza semplice tracciare quel confine.

Diego D’Ippolito, giornalista