Dieci anni di crisi
Tra qualche mese saranno dieci anni da quando la Lehman Brothers fallì, dando «ufficialmente» inizio a una crisi economica globale di cui, tuttora, ne sentiamo gli strascichi. Una crisi lunga, che ha accompagnato gli anni di maturazione di un’intera generazione. Qualche settimana fa, durante una lezione universitaria a una classe di studenti nati nel 1993, mi sono reso conto di come questi ragazzi abbiano passato la loro adolescenza, e si stiano formando come adulti, sotto il segno della parola «crisi». Per loro, mi raccontavano, è uno stato «naturale» dell’economia, che li porta in alcuni casi a frustrazione e, in altri, a far uscire le energie migliori per riscattarsi.
Dopo 10 anni, mentre gran parte del mondo occidentale si è di fatto lasciata alle spalle la crisi, in Italia festeggiamo per tassi di crescita che altrove si valuterebbero come fallimentari. Poche settimane fa è uscita sui maggiori mezzi di informazione la notizia che la Spagna ha ufficialmente sorpassato, in termini di ricchezza prodotta, l’Italia. Dunque, a che punto siamo? Siamo riusciti a sorpassare i momenti più difficili e tornare a stare almeno bene quanto stavamo 10 anni fa? E come se la cavano gli altri paesi? Consideriamo inizialmente il PIL, che riassume la ricchezza prodotta in un paese in un anno. Se prendiamo a riferimento la ricchezza prodotta dagli Stati nel 2007, prima dell’inizio della crisi, i dati (fonte Economist) dicono che, in media, gli stati dell’UE sono tornati ai livelli pre crisi nel 2015. Per esempio la Francia, già nel 2011 aveva recuperato tutta la ricchezza perduta. L’Italia e la Grecia sono le uniche due eccezioni. A oggi l’italia ha una ricchezza del 5% più bassa rispetto al periodo precedente alla crisi. La Germania o gli USA hanno recuperato tutto e sono addirittura tra il 15 e il 20% più ricche di prima. La Spagna ha appena recuperato i livelli pre crisi.
Il PIL è tuttavia un indicatore aggregato che potrebbe non tenere conto di molti fattori distributivi. Guardiamo perciò ai tassi di disoccupazione che ci danno un’indicazione, seppur limitata, della quantità di persone escluse dal sistema economico. Se, prima della crisi, l’Italia aveva una disoccupazione di circa il 7%, oggi ha un tasso dell’11%. Certamente meno rispetto ad altri Stati come la Spagna, ma su valori incommensurabilmente più alti di altri paesi europei. Da notare che i tassi di disoccupazione sono drammaticamente differenti nelle diverse aree del Paese. Le regioni del nord Italia si collocano nell’area più ricca d’Europa, in una fascia che parte dalla Danimarca e, attraversando tutta la Germania, arriva all’Emilia Romagna. In questa regione il PIL è superiore alla media europea e la disoccupazione di molto inferiore. Viceversa, alcune delle regioni del sud Italia sono tra le più povere d’Europa, con livelli di reddito e disoccupazione simili alle aree più depresse dell’est Europa. Per dare un esempio della forte differenza esistente in Italia, nel nord-est la disoccupazione è sotto il 6%, mentre al sud raggiunge quasi il 20%. La differenza nella disoccupazione giovanile è ancora più drammatica e alimenta una crescente migrazione interna di giovani. Le università milanesi, per esempio, registrano fortissimi aumenti di studenti. Questo successo è l’altro lato della migrazione di giovani che, in misura sempre crescente, non solo vengono al nord a lavorare dopo la laurea ma scelgono le sedi del nord direttamente per gli studi.
Tuttavia, accenni di ripresa e di recupero, seppur tardivi, si osservano per il nostro Paese. La differenza, rispetto ad altri, è che in Italia si continua ad avere un forte problema di bassa produttività del lavoro dovuto principalmente a due fattori: una forza lavoro non formata in maniera appropriata per il mercato del lavoro e delle imprese che faticano a innovare, e quindi a proporre investimenti che garantiscano maggiore produttività dei lavoratori. Se confrontiamo quanto succede rispetto al 1990, oggi l’Italia ha una produttività solo del 15% maggiore mentre la generalità degli altri paesi avanzati ha una produttività del 40-50% maggiore. Ciò necessita di investimenti importanti nella formazione e nell’università, voci che tuttavia, a parte gli ultimi anni, sono state drasticamente tagliate. Si necessita, inoltre, di forti incentivi anche pubblici agli investimenti tecnologici. Solo negli ultimi anni si è finalmente deciso di mettere mano a un programma chiamato industria 4.0 che pare stia dando alcuni frutti nel promuovere l’innovazione nelle imprese. Il distacco da colmare rispetto agli altri Paesi avanzati è molto e l’impegno che si dovrebbe necessitare è notevole. La speranza è che i prossimi governi sappiano affrontare, in maniera non ideologica, questa situazione.