Ripensare la salute e le relazioni di cura
Nell’ultimo decennio sono cresciute le critiche alla definizione pubblica più nota di «salute», quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS); critiche non solo teoriche, ma in relazione al cambio di rischi e problematiche sanitarie avvenute negli ultimi decenni e a un possibile ripensamento dell’organizzazione sanitaria e delle relazioni di cura.
La definizione pubblica e condivisa di salute è stata approvata il 22 luglio del 1946 ed è entrata in vigore il 7 aprile del 1948. Tale definizione, rovesciava la prospettiva organicistica fino ad allora dominante – quella della «giusta» fisiologia, ossia dell’assenza di malattia – per proporne una «in positivo»: come benessere fisico, psichico e sociale, ma anche come diritto umano da garantire da parte dei costituendi Sistemi Sanitari Nazionali (SSN). Tale definizione è stata ribadita nel 1978 (con qualche lieve aggiustamento) anche nella Dichiarazione di Alma Ata sul ruolo delle cure primarie che intendeva lanciare un nuovo modello organizzativo basato sulla prevenzione e l’estensione dei compiti dell’assistenza di base, un approccio assunto anche dal costituendo SSN italiano approvato nello stesso anno ed entrato in vigore il 1° gennaio 1980.
Negli anni ’80 la stessa OMS ha lanciato, nel corso di un’assise mondiale tenuta a Ottawa, la famosa Charta sulla promozione della salute che non vedeva più la salute come un punto d’arrivo finale e ottimale, ma come un incremento, frutto di un potenziale latente da sviluppare attraverso un «fare» personale, ma soprattutto attraverso uno slancio collettivo capace di costruire «ambienti favorevoli alla salute». Secondo alcuni interpreti, si è trattato solo dello sviluppo della definizione precedente, ma, secondo altri, si può parlare piuttosto di un salto culturale, capace di far passare da una visione statico-olistica a una dinamica e socio-ecologica.
I meriti storici della definizione del 1948 sono senz’altro molto rilevanti, soprattutto perché il «diritto alla salute» (recepito anche dalla Carta costituzionale italiana) è stato il motore degli interventi di welfare e di organizzazione della sanità in molti paesi del mondo. Inoltre essa aveva proposto all’immaginario collettivo un termine, come quello di benessere, che sembrava un obiettivo da raggiungere non solo sul piano personale, ma altresì su quello collettivo. Per contro, fin dai primi tempi dopo l’approvazione, vi erano state delle critiche sul piano dell’idealità e irraggiungibilità dell’obiettivo, della staticità (salute come stato) e del permanere di un dualismo benessere-malessere che lasciava il campo medico al riparo da cambiamenti rilevanti nel settore della cura terapeutica. Tanto è vero che, a parte le attese partecipative degli anni settanta-ottanta, ben poco era cambiato nei rapporti di cura se non in termini di diritto di accesso e di consenso formale alle cure introdotti in quel periodo.
Il nuovo slancio impresso con la definizione del 1986 voleva dare voce al protagonismo dei movimenti per la salute, l’ambiente e la cittadinanza sorti in quel periodo, restituendo valore al fare dei soggetti e spostando più a monte la ricerca della salute, a cavallo fra sanità e «stili di vita sani», anche al fine di favorire la sostenibilità dei sistemi sanitari che cominciava a farsi sentire come problema. Un tentativo generoso e molto innovativo ma che ha avuto esiti limitati e ancora oggi ignorato dal grosso della struttura sanitaria.
Fra le ragioni recenti per una critica al concetto di benessere si sono portate quelle demografiche ed epidemiologiche. La definizione OMS rischierebbe di penalizzare la popolazione anziana o i portatori di disabilità, che costituiscono una quota rilevante delle popolazioni attuali e future, che non sempre devono essere considerati malati cronici allorché riescono ad affrontare validamente la loro situazione. Sul piano sociale si è messo l’accento sulla possibilità di mantenere un buon inserimento sociale, pur in condizioni non ottimali sul piano fisico. Una nuova interpretazione della salute dovrebbe piuttosto evidenziare le capacità personali di gestire varie problematiche, lasciando al professionista una funzione di affiancamento e facilitazione. In tal modo sta emergendo una visione non tanto globale (holoshealth) o «positiva», quanto «di funzionamento» (già indicata nel mondo classico con i termini euxeria o valetudo, ossia forza, vitalità, resistenza). La salute, in tale visione, potrebbe passare da una polarizzazione positivo-negativo a una sorta di continuum o compresenza di processi organizzativi e disorganizzativi, ossia salutogenetici e patogenetici. I primi andrebbero favoriti e sostenuti, i secondi contenuti e contrastati.
I due concetti principali che sono stati proposti per sostenere questa impostazione sono stati quelli di «resilienza» e di «salutogenesi». Il primo, inteso come «capacità degli individui di fronteggiare, mantenere e ripristinare la propria integrità, il proprio equilibrio e senso di benessere» è stato a lungo discusso in una conferenza sul concetto di salute, tenuta in Olanda nel dicembre 2009. Il secondo, coniato da Aaron Antonovski in studi condotti negli anni ’70 e ’80, è stato applicato dall’autore sia alle capacità dei soggetti di affrontare difficoltà e adattamenti grazie a un «sense of coherence» posseduto (come diversi ebrei che avevano affrontato i disastri della seconda guerra mondiale) sia alle condizioni sociali che potevano favorire la diffusione di tali capacità.
Pochi anni prima Ivan Illich, criticando l’orientamento passivizzante e tecnocratico della nuova medicina nella famosa opera Nemesi Medica (1976), aveva proposto una visione della salute molto vicina a quella di Antonovski. Scriveva infatti Illich: «La salute è la capacità di adattarsi a un ambiente che cambia, la capacità di crescere, di invecchiare, di guarire, in caso di necessità di soffrire e di aspettare la morte in pace. La salute tiene in considerazione il futuro, cioè suppone l’angoscia, e contemporaneamente le risorse interiori per vivere con l’angoscia e superarla». A differenza di Illich tuttavia, la definizione di resilienza proposta dalla Conferenza del 2009 è parsa troppo schiacciata sulla dimensione personale e poco esplicita sul piano delle dimensioni sociali e delle garanzie di cura dei soggetti poco resilienti. Per questa ragione altri autori hanno sviluppato definizioni più comprensive come quella da me formulata nel 2015 e ripresa in pubblicazioni successive (Ingrosso M., La cura complessa e collaborativa, Aracne, 2016). Essa recita: «La salute consiste nella capacità (per gli esseri umani) di mantenere il proprio equilibrio vitale, di affrontare gli eventi della vita, di adattarsi ai cambiamenti del proprio ambiente. La salute necessita di ambienti favorevoli alla vita umana, di adeguate relazioni sociali e di opportune forme di cura reciproca e organizzata. Le condizioni che permettono a un gruppo sociale e ai suoi membri di mantenere e sviluppare la salute costituiscono un bene comune da promuovere e tutelare».
Le ragioni di questa definizione sono quelle di suggerire che la salute si può interpretare come una visione sintetica di adeguatezza, adattamento e coerenza dei quattro circuiti organizzativi integrati (somatico, mentale, socio-culturale, eco-ambientale) su cui si basa la vita singola e collettiva. Essa va quindi affrontata con una responsabilizzazione del soggetto nelle varie fasi della vita (cura di sé), ma soprattutto ha bisogno di condizioni collettive di tipo ambientale, di tipo sociale e di cura interpersonale e organizzata. Se la salute non diviene un complesso bene comune, sostenuto da valori e investimenti, rischia di disperdersi in mille rivoli che sarebbe impossibile per i singoli contenere e intrecciare.
Gli attuali vistosi deficit qualitativi e quantitativi delle cure si traducono in diseguaglianze a carico delle situazioni più sfavorite, ma toccano pesantemente anche le classi medie che reagiscono con una forzata disaffezione verso il SSN. Ciò aggrava il tema della sostenibilità che non ha solo cause demografiche ed economiche, ma riflette una caduta dell’etica della cura e un moto di sfiducia verso tutte le autorità (comprese quelle scientifiche e istituzionali) così ampio e generalizzato che porta a minare conquiste di civiltà. Ciò indica che vi è la necessità di profondi ripensamenti e di una nuova impostazione dei rapporti di cura, non più basati su basi di autorità ma di dialogità corresponsabile.
Lo sviluppo di una nuova cultura della salute e della cura ha il suo fondamento in rapporti sociali più fraterni e solidali e insieme concorre a fondarne le ragioni. Chi, a vario titolo, è occupato e coinvolto nei percorsi sanitari e di salute può quindi trovare un nuovo orizzonte di senso verso cui indirizzare il proprio impegno e le proprie speranze.
Marco Ingrosso
professore di sociologia della salute, università di Ferrara