Il sessantotto e la guerra dei bottoni

di Monini Francesco

«È successo un Quarantotto». È una frase che ancora si usa, per dire di un gran polverone, di una mezza rivoluzione, di un rivolgimento improvviso: uno spartiacque, un segno evidente che spazza via il passato e apre al futuro. I movimenti di piazza del Quarantotto – sto parlando del 1848 – segnarono effettivamente una svolta epocale, nella Grande Storia come nelle storie private e individuali. Fu allora che la Restaurazione, imposta dal Congresso di Vienna dopo la parabola napoleonica, dimostrò tutta la sua inefficacia. Il vaso era rotto e non era più possibile incollare i pezzi; di lì a pochi anni in tutta Europa la monarchia assoluta e il diritto divino avrebbero lasciato il campo agli statuti, ai parlamenti, al primo affermarsi della sovranità popolare. Con il 1848 cominciava «un’altra storia», un lungo e travagliato viaggio che arriva fino alla nostra Costituzione Repubblicana, articolo 1: «La sovranità appartiene al popolo».

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Mi scuso per il ripassino di storia risorgimentale. Non voglio intrattenervi con Pisacane e Mazzini, il conte Cavour e il generale Garibaldi. Il Quarantotto mi è tornato in mente per colpa del Sessantotto. La macchina mediatica non ha perso tempo: il primo gennaio accendo la televisione e, tra una pubblicità e l’altra, ecco il primo servizio sul cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Molto confuso. Molto banale. Molto buonista.

Vecchi filmati in bianco e nero, studenti e operai in piazza, antichi slogan e vecchie interviste. Nuovi dibattiti, analisi sociali e politiche, interventi di professori ed esperti, ci accompagneranno di sicuro per tutto il corso dell’anno. Prepariamoci a non poterne più del Sessantotto.

Ma qual è stato in realtà l’impatto e quali le conseguenze di quel fenomeno che chiamiamo Sessantotto? È stato o no simile al Quarantotto del Milleottocento? Ha segnato 26DIA RIO MINIM O una frattura epocale, una rottura con il passato, un’apertura a un futuro (il nostro presente) affatto diverso? Ha cambiato la Grande Storia e, insieme a quella, le nostre storie private e individuali?

Il Sessantotto, intendiamoci, non è una data precisa. Parliamo almeno di un decennio: dalla rivolta degli studenti di Berkeley del 1964 alle marce pacifiste, da Malcolm X a Martin Luther King, da Che Guevara al Cile di Salvador Allende, da Woodstock a Peace and Love, dal Maggio francese alle occupazioni delle università e alle grandi lotte operaie. Un movimento multiforme, diffuso in tutto l’Occidente, capace di mobilitare milioni di cuori e di menti. Fin qui il paragone tra Sessantotto e Quarantotto sembra reggere. Per entrambi i fenomeni sembra stare a pennello la definizione coniata da Mao: «Un grande disordine sotto il cielo».

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Nel 1968 ero un bambino. Da ragazzo, nei primi anni Settanta, ho vissuto però gli ultimi scampoli del decennio di quel «grande disordine». Oggi mi guardo intorno: il polverone si è posato da molto tempo, l’orizzonte è sgombro, ma non è un gran panorama, non riesco a vedere le forme, anche se confuse, di un nuovo ordine sociale. Non vedo: più pace e più democrazia, più giustizia e meno povertà.

Per imporre la Restaurazione non c’è stato bisogno di un Congresso di Vienna. Ci ha pensato il mercato.

Non basta. Il mercato – in primis il mercato dell’informazione – è riuscito a trasformare il Sessantotto in nostalgia. Guardate con quanta benevolenza si parla oggi di quel decennio lontano: i capelloni, i figli dei fiori, le comuni giovanili… Così il Sessantotto viene ricordato, santificato e archiviato. Nella nube rosa della nostalgia ci raccontano che il Sessantotto è morto per colpa del Settantasette, che sono state le P38 a uccidere la grande utopia. In realtà il Sessantotto era già morto ben prima dei cosiddetti anni di piombo. L’ordine era già stato ristabilito. Studenti e operai sconfitti, si apriva una stagione nuova dominata dal neoliberismo e del mercato globale. Da quel momento il cittadino lascia il posto al consumatore. Possiamo, anzi, dobbiamo consumare tutto. Compreso l’anniversario del Sessantotto che è stato apparecchiato per noi.

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C’era una volta (ad esempio) la «rivoluzione sessuale»: la grande onda, giovanile e femminile, per liberare la sfera intima, «il corpo», dai dettami di una morale bacchettona e ipocrita. Oggi il grande cambiamento nel costume – nel linguaggio come nei comportamenti – è innegabile. Ma possiamo ascrivere questo cambiamento alle battaglie del Sessantotto? In altre parole: siamo davvero più liberi di cinquant’anni fa? A me sembra che il nostro corpo, la nostra fisicità, la sfera sessuale sia più libera solo in apparenza. In realtà anche questo campo è stato colonizzato dal mercato: dalla volgarità televisiva come dalla pornografia.

Anche il corpo, una volta sciolto dalla censura e dal cappio del perbenismo, è diventato un campo da mettere a profitto. Un’area dove comandano le regole del mercato e poco o nulla le leggi dello Stato.

È vero, oggi anche io sono libero di scrivere «cazzo» o «pene» senza cercare un qualche eufemismo, ma è davvero una ben magra consolazione.

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Liberare il corpo è un’altra cosa. Si tratta di un’impresa ciclopica, una battaglia di lungo periodo, ma che per fortuna è ancora in corso. Quel che rimane vivo del Sessantotto, di quel grande vento che attraversò il mondo, sono oggi due grandi istanze: il movimento delle donne e quello dei gay.

Dalla legge sulle unioni civili alle ammissioni di colpa della Chiesa cattolica, dalle denunce di molestie di attrici e soubrette al coming out di tanti artisti. Molti segnali stanno a dimostrare che il cammino di liberazione sessuale non si è fermato. Le imponenti marce delle donne, in Europa come negli Stati Uniti, contro la violenza alle donne, lo stanno a dimostrare.

Non credo basterà avere il 40% di parlamentari donne per cambiare l’Italia. Né una donna Presidente del Consiglio o della Repubblica. Ma dobbiamo guardare più in basso, a quanto sta succedendo in ogni casa e in ogni coppia. Il potere monocratico maschile – come il diritto divino della monarchia assoluta – si è rotto per sempre e sta perdendo i pezzi. Della sua morte potranno godere tutte le persone di buona volontà, maschi compresi.

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Al leader nordcoreano che ricordava di avere sul tavolo il bottone per scatenare la guerra nucleare, il presidente della più grande potenza economica mondiale ha risposto che il suo bottone era molto più grosso. La guerra dei bottoni (rossi) ha scatenato l’ironia e gli sfottò del web, e in effetti è difficile trattenere il riso davanti a parole tanto gravi quanto incongruenti. Sembra una scenetta di avanspettacolo degna del «vieni avanti cretino» dei fratelli De Rege. Un botta e risposta da commedia dell’assurdo.

Non c’è da preoccuparsi? Forse sì, forse è solo pretattica, ma c’è da diffidare quando l’assurdo e il ridicolo entrano nella cronaca e nel linguaggio politico. Non vi viene da ridere nel vedere i vecchi filmati del mascelluto che, dal balcone di Piazza Venezia, prometteva di spezzare le reni alla Grecia? Appunto, sappiamo com’è finita.

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Quando mi leggerete avrete già votato. Oppure avrete scelto di non andarci, a votare. Ma mentre scrivo manca ancora più di un mese: la campagna elettorale è entrata nel vivo, i partiti hanno presentato i simboli, hanno deciso candidati e alleanze, hanno elencato promesse più o meno mirabolanti. Eppure – e non credo di essere il solo – confesso la mia confusione e delusione. L’appuntamento elettorale, lungi dall’appassionarmi, mi deprime. Ogni anno che passa, elezione dopo elezione, dalla prima alla seconda alla terza repubblica (ho perso il conto), mi diventa sempre più difficile decidere cosa e chi votare.

Alla fine, anche questa volta ci riuscirò, ma da un po’ di anni il mio non è più «un voto per» ma «un voto contro». So quello che non voglio, so il grande pericolo di consegnare l’Italia alla destra populista ed egoista, alla confusa avventura grillina o all’eterno Cavaliere della vergogna. Ma tutto questo non basta per «votare per». Mi piacerebbe. Mi piacerebbe crederci, ma non mi pare che nessuno abbia meritato il mio voto convinto. Alla fine voterò, senza entusiasmo e senza convinzione, per evitare il peggio. Perché, per quanto possa sembrare strano, potrebbe davvero andare peggio.