Il mondo «parallelo» della cooperazione

di Boschetto Benito

I molti volti della cooperazione internazionale

Nel variegato panorama della cooperazione internazionale troviamo davvero di tutto, tanto nelle motivazioni quanto nelle modalità di intervento da parte dei donors, quanto anche dalla parte dei riceventi.

Il punto cruciale nel giudizio sulle differenti attività sta nello scarto che si registra tra gli obiettivi enunciati e quelli realmente raggiunti, per non dire di quelli dichiarati e quelli reconditi delle intenzioni reali per le quali si agisce. Si tratta di motivazioni autenticamente umanitarie, segnate da gratuità e disinteresse, e perfino speculative, economiche o politiche. Si va da motivazioni di potere, ispirate a quella sorta di neocolonialismo di tante strategie geopolitiche volte ad aumentare l’influenza in un territorio, a quelle stesse delle differenti fedi religiose come instrumentum regni. Oggi, poi, con l’importanza assunta dall’economia globale, soprattutto nelle forme dominanti e pervasive della finanza, il ruolo del mercato resta un fattore fondamentale, vettore stesso della politica di potenza, nella penetrazione su aree vaste di paesi e continenti, con una forza di spinta che, in un mondo globalizzato, non ha ormai più limiti.

La cooperazione, come la intendiamo nell’accezione comune, di aiuto cioè ai Paesi che ne hanno particolarmente bisogno, è la modalità principe di quella subdola introduzione nei gangli del potere locale delle varie aree che ne sono destinatarie.

Obiettivi e risultati

Che la cooperazione internazionale debba servire a migliorare le condizioni di vita delle popolazioni più povere è un assunto generalmente condiviso, magari assieme al principio dell’autonomia o dell’autoemancipazione. Purtroppo così non è. Molte sono le variabili critiche che interagiscono negativamente: la corruzione, gli imbrogli, le inefficienze, i fattori culturali e di costume, per non dire delle condizioni politiche e dei diritti umani, sono tutti dati oggettivi che chiunque si avventuri in esperienze su tante di quelle realtà finisce per constatare direttamente. Sempre. Non si parla ovviamente di quegli aiuti minori dei microprogetti, frutto di carità, come la costruzione di una singola chiesa o di un asilo, attraverso un generoso missionario, dove la filiera, che va dalla raccolta dei fondi alla realizzazione dell’opera, è sufficientemente facile e garantita. Ci si riferisce alle politiche delle grandi organizzazioni, dei grandi investimenti, oppure ai progetti più complessi.

Ebbene, al netto di tutte queste difficoltà, credo che il giudizio più serio sia quello che si deve dare su quanto un’azione ha finito per andare a beneficio di chi aveva un bisogno che si voleva aiutare. Insomma, quello che conta è cosa di buono si è riusciti a fare in concreto sulle condizioni reali delle persone in una comunità o in un Paese, da non confondere con la pretesa di cambiare il mondo, impresa che, quando non è di propaganda, è nobile, ma poco realistica.

Un’esperienza: dalla Sierra Leone alla Palestina

Ho vissuto a lungo, come volontario, esperienze diverse in Sierra Leone e in Palestina.

In Sierra Leone ho cominciato il mio impegno nella fase finale del conflitto locale, quando ancora infuriavano i massacri e si cominciava la macabra conta dei danni. Ovviamente c’era bisogno di tutto: dal cibo all’acqua, alla sanità, alla scuola, al lavoro, fino alla chiesa e al cimitero. Siamo partiti in due: un «fratello» sierraleonese e io, senza strutture organizzate o filantropi alle spalle, ma con tanti amici che hanno risposto al nostro appello. E così: pozzi, scuole, strutture sanitarie e sociali, poliambulatori, asili, centri per anziani, borse di studio, radio per la formazione a distanza, chiese, cimiteri, mercati e tanto altro. Numerose sono state le realizzazioni compiute, fino al grande sostegno ai malati di ebola. O la casa per ciechi dove abbiamo dato accoglienza a cento fra bambini e ragazzi, tolti dalla strada e abbandonati dalle famiglie perché, nelle credenze della cultura locale, un bambino cieco è una maledizione degli dei. E dire che, con l’ambulatorio oculistico della «casa», si è potuta ridare la vista all’80% di loro, trattandosi di malattie lievi, se curate.

La nostra filiera non aveva burocrazia di mezzo, né nomenclature corrotte, ma non per questo è stato tutto facile. Potrei dire che è successo di tutto.

I presupposti del nostro impegno erano due: rigore e trasparenza nella gestione del denaro, da rendicontare con cura ai donatori, e ferma determinazione sul principio dell’autoemancipazione. Le costruzioni, che sostituivano quelle in paglia, erano tutte in mattoni, ma erano le persone del luogo che se ne occupavano, così come erano esse stesse che costruivano ed erano ancora loro che poi gestivano le strutture.

Ancora oggi i ragazzi studiano, i poliambulatori funzionano e le donne partoriscono tutte assistite, così che le morti per parto sono calate drasticamente.

Tutto ciò aiuta a cambiare mentalità e cultura? Forse sì, anche se ho appreso che ci sono aspetti della cultura locale che noi occidentali dovremmo imparare e mutuare, a cominciare dall’educazione dei bambini sulla famiglia e i rapporti intergenerazionali o sui costumi e i rapporti che vigono nelle stesse famiglie poligamiche.

È un grande motivo di riflessione, questo dell’intercultura. La pretesa di essere, noi, civiltà superiore è ridicola, prevaricante, neocoloniale e perfino stupida. Non solo «portatori», cioè, ma anche «prenditori». Scoprire i valori delle altre culture, etnie e religioni è un esercizio intellettuale e di civiltà prezioso per la convivenza pacifica. La cooperazione deve poter essere anche strumento di questa contaminazione e generale emancipazione. Del resto la globalizzazione porterà al meticciato e questo, piaccia o no, a una nuova società e a una nuova civiltà. Capirlo per tempo significa evitare dolorose incomprensioni e stupidi, nonché cruenti, conflitti. Occorre affermare con forza che il vero fronte di guerra nel mondo di oggi è la lotta alla povertà attraverso la lotta per la giustizia e non la lotta ai poveri. Questo è l’equivoco di fondo che gli ottusi e i soggetti in malafede generano sull’emigrazione.

Molto diverso è il caso della Palestina, dove l’intreccio dei problemi sembra inestricabile tra storia, politica, religione, egoismi e ottusità e do – ve forza e ragione non riescono a mettersi proprio d’accordo. Ben altra situazione rispetto all’Africa centrale per livello di acculturazione, per condizioni economiche e risorse. Tutto è più cospicuo.

Eppure c’è anche tanta povertà, mentre corruzione e sprechi sono sotto gli occhi ogni giorno. Una classe dirigente litigiosa, inetta, spesso cor – rotta, ha la grande responsabilità della condizione sociale ed economica del sottosviluppo. Quando, insieme a un gruppo di dirigenti politici di alto livello, ho ideato un progetto di sviluppo economico, sociale e culturale e ho proposto di passare alla fase operativa, costituendo l’organismo di gestione che definisse il piano concreto di lavoro, il mio interlocutore più elevato in grado, nel vertice della nomenclatura, mi ha chiesto subito i soldi. Ho risposto che prima si definiscono i singoli progetti e poi si trovano i soldi. La replica è stata stupefacente: «Gli americani ci danno subito i soldi e non si preoccupano dei progetti». Stupidità o senso di colpa? Senza controllo, quindi, e senza obiettivi. Basta compiacere i capibastone. È cooperazione questa? Questo la dice lunga su due aspetti. Il primo sul fatto che, se nulla si chiede ai cittadini locali nell’impegno sullo sviluppo, non si aiuta il processo di autoemancipazione. Il secondo è che, se nessuno controlla il corretto uso di queste risorse, è inevitabile che esse siano oggetto di predatori avidi, destinate ad alimentare la ricchezza delle pingui élites, lasciando la gente nella povertà.

E sì, proprio azioni congiunte, perché nella mia filosofia di intervento mi rifiuto di opera – re come sovrastruttura senza il coinvolgimento dei locali. Il neocolonialismo è questo. Nulla è conquista vera, pur aiutata e assistita, se non è anche conquista propria e nulla verrà assunto in cura, come fosse davvero proprio. Se ciascuno non è, almeno in parte, artefice del suo autosviluppo, tutto è destinato e deperire e sparire. Ho visto abbandonare numerose ONG, stanche di lavorare senza arrivare a nulla. Ho visto opere di straordinario valore delle stesse ONG lasciate a metà per incapacità dei locali a trovarsi d’accordo, intenti a decidere la parte che spettava a loro e a lasciare sparire risorse inutilizzate.

Si può e si deve essere severi, su questo piano, con la realtà di questo Paese, dove, essendoci pressoché tutto, si potrebbe fare tanto, tutti quanti e invece, contrariamente alla Sierra Leone in ben altre condizioni, si riesce a fare davvero ben poco. Eppure questo è un Paese che conquista. Ha un magnetismo su cui ho riflettuto e scritto anche molto. Io, che ho avuto il privilegio di viaggiare in tutto il mondo, ho trovato in questo Paese uno spiritus loci assolutamente unico.

Nonostante l’indignazione che provoca il modo di agire di questo popolo, si finisce per voler bene a queste persone. Eppure nella mia personalissima interpretazione, anche questa è una forma o una componente non secondaria di un impegno di cooperazione. La situazione che si è determinata e che si vive in questa terra è talmente crudele e ingiusta da coinvolgere e da riconoscere loro mille ragioni. È una terra dove non c’è solo povertà economica e sociale, ma una vera e propria «apartheid», la quale è la povertà peggiore e, in qualche misura, anche la causa diretta di quella economica e sociale.

Quale giudizio sulle prospettive?

In un mondo caratterizzato non solo da enormi disuguaglianze, ma da una forte tendenza ad accentuarle, è evidente che l’ultima preoccupazione dei grandi decisori del destino dell’umanità è operare per la giustizia, la cancellazione della povertà, un aiuto vero allo sviluppo di chi è ri – masto ancora indietro.

La cooperazione, in questa prospettiva, è un fattore pressoché ininfluente. Potrà aiutare a lenire qualche effetto dell’ingiustizia, ma non certo a rimuoverne le cause, che poi è la differenza, come ci ricorda Giuseppe Stoppiglia, che per questo colloca la prima al di sopra della seconda.

Se poi consideriamo le numerose guerre locali, quelle che il Papa Francesco ha definito come «la guerra mondiale a pezzi», che non sono mai conflitti realmente locali, ma combattuti per conto di grandi interessi politici o economici, oscuri o espliciti, è chiaro che non c’è cooperazione che tenga e nulla, si sa, produce più povertà delle guerre.

C’è infine un altro elemento e riguarda quel pensiero politico che aveva fatto della giustizia il fattore fondante della propria ideologia: una bandiera di tante lotte e di tante conquiste. Oggi è in crisi ovunque, e nulla e nessuno sembra aver ereditato quel grande patrimonio morale e politico, con quella «spinta propulsiva» che porta a lottare per le ragioni degli ultimi. Tuttavia senza giustizia non c’è libertà, né dignità, né pace.

Diverso è il discorso se scendiamo di livello, a cominciare da quello individuale. «Chi salva una vita salva il mondo» dice il Talmud. Grande verità, ma allo stesso tempo occorre essere consapevoli che, se sul piano personale o della dimensione a noi più prossima, occorre fare tutto quello che si può, e la cooperazione è certamente una modalità apprezzabile, vivendo fino in fondo quei «tempi penultimi» di bonhìöefferiana memoria, si deve sapere che il mondo ha davvero bisogno d’altro. Forse proprio di quei tempi ultimi dell’avvento del Regno di Dio.

Benito Boschetto
già direttore della Borsa Valori,
Milano