Una svolta culturale per la cooperazione internazionale
Ha ancora senso la cooperazione internazionale?
Questa domanda, provocatoria e dalla risposta apparentemente già pronta (chi direbbe di no?), rivela in modo inequivocabile la contraddizione che si respira intorno a un processo che, prima ancora che economico, sociale o politico, è intrinsecamente culturale e conseguentemente etico.
Usciamo da anni importanti, finanche gloriosi, in cui la cooperazione istituzionale tra il Nord e il Sud del mondo ha dettato un’agenda ricolma di azioni significative, che nelle intenzioni di molti erano finalizzate ad affermare valori che sono sempre parsi inesauribili: la crescita, lo sviluppo umano, la giustizia sociale, la distribuzione equa della ricchezza e soprattutto l’esportazione di una nozione condivisa di solidarietà.
Il tempo ci ha riservato delusioni e contraddizioni, che hanno lasciato l’amaro in bocca a molti e che hanno mostrato il fallimento di un’idea. Molti progetti, classificati come tali, non hanno raggiunto gli obiettivi e molti propositi si sono dissolti in una serie di meccanismi perversi e funzionali al mantenimento di strutture e di piccoli privilegi, tanto da porre una domanda scarnificante: gli aiuti aiutano?
Quest’esclamazione di Nino Sergi, inserita in un ragionamento lineare e concreto, colpisce nel segno di una contraddizione che nei prossimi anni dovrà essere risolta, come un nodo che dovrà essere sciolto e liberato.
Tuttavia la grande idea della cooperazione internazionale resta in tutta la sua integrale purezza e abbraccia l’«utopia reale» (dolcissimo ossimoro) di «un altro mondo possibile», così come si era sognato nel grandioso e promettente Forum Sociale Mondiale del 2002 a Porto Alegre, in Brasile.
La possibilità di impostare relazioni politiche, economiche e sociali su basi di equità non può né deve prescindere da una crescita etico-culturale che l’accompagni. Ogni idea di progresso e di avanzamento ha bisogno di opzioni culturali forti e radicate e soprattutto necessita della mediazione storica tra la libertà dell’individuo, il bene comune e la fiducia nel grande valore dell’«alterità», in opposizione a qualsiasi forma di chiusura settaria ed egoistica.
Oggi le difficoltà della cooperazione internazionale rappresentano il prezzo amaro da pagare a seguito di un’involuzione individualistica, là dove i princìpi della crescita comune e del bene collettivo paiono cedere il passo all’interesse singolare. Ogni forma di xenofobia, ogni rifiuto di un’equa distribuzione della ricchezza e delle opportunità e infine ogni ostacolo frapposto al riconoscimento della dignità personale sono semplicemente i sintomi chiari della malattia più grave del tempo presente, che è l’esaltazione dell’individuo in chiave egoistica.
Se cooperazione è azione comune per il bene di tutti, l’unico modo per uscire da questa «impasse» è la rottura di uno schema culturale oggi imperante, figlio prediletto del capitalismo neoliberale.
Ecco perché il rilancio della cooperazione internazionale passa forzatamente dalla critica radicale a una struttura globale che i teologi della Liberazione hanno sempre definito «struttura di peccato». Globalizzare lo sviluppo è possibile solo se si globalizza la cultura della solidarietà. Si tratta di una sfida aperta e prolungata nel tempo, si tratta di una svolta determinante.
Vincerla è fondamentale.
Egidio Cardini
insegnante nei licei di Stato,
componente la redazione di Madrugada