Il lungo viaggio di Bruno, il grande tessitore
«Non sforzarti di tacere, ascolta».
Madeleine Delbrêl
«Quando qualcosa ci indigna diventiamo
militanti, forti e impegnati».
Stéphane Hessel
Dal rumore dei telai… alla stanza d’ospedale
Sto lasciando la città di Valdagno e quella valle incuneata fra le montagne, fitta di case e di fabbriche, di botteghe, di caffè, di uffici e di case nuove, nei vicoli che salgono o scendono. Oppure sono arterie più larghe e ancora edifici per la tessitura, che spuntano qua e là, di continuo, come parallelepipedi, conficcati nel suolo. Sembrano stele di pietra, una dopo l’altra, come alte grida protese verso il cielo. Tutte accostate, così vicine!
Nelle mie orecchie rimbomba ancora il rumore dei telai. Lo sguardo vivo di Bruno Oboe, appena visitato in una stanza d’ospedale, continua a guidarmi. Sul suo volto, magro e pallido, si riflettono immagini nitide di sofferenza e di gioia, che nel suo lavoro di sindacalista, ostinato e perseverante, hanno segnato l’impegno suo, quotidiano.
Il suo corpo rigido, che da sempre è stato un inno alla vita, ora è pesante come piombo, dopo sei mesi di ininterrotta permanenza in ospedale; con delicatezza mi accarezza le mani e mi racconta, con i suoi occhi neri e profondi, la stanchezza di essere solo e senza la parola. In quegli istanti, brevissimi, ho compreso la dolcezza della sua umanità e mentre mi asciugava le lacrime, che scendevano, come un lavacro, abbondanti sulle guance, comunicavamo tutta l’intensità del cuore di due bambini, felici l’uno per l’altro, in un intreccio indissolubile. Il tempo delle sue giornate ora è scandito dai ritmi dell’ospedale. Solo al termine della mattinata, si accosta al computer per racimolare qualche notizia sul sindacato e sulla politica. Mi sto chiedendo quali siano i pensieri che gli fanno compagnia dall’alba al tramonto, con quali si intrattenga nelle serate buie, in quel posto disadorno, qual è la nuda stanza di un ospedale o di un ospizio.
Su per la neve e i monti, assieme
Vorrei camminare e correre, magari in fretta, sulle sue montagne, innevate da qualche giorno. Le curve strette, regolari e, ogni due svolte, lo spettacolo di Valdagno, sotto. Passo e respiro sincronizzati. Chiazze larghe di neve si notano solo sui rilievi ma, lasciato l’altipiano, ai lati del sentiero che si inerpica, tutto è innevato. Bianco, compatto, spumoso, esaltante. Prima a perdita d’occhio c’era la città, ora ci sono gli alberi. Distese di abeti, di rami bianchi e all’orizzonte le montagne più alte. E finalmente quel vuoto nella mente, così cercato e così benefico. Bruno ama il silenzio della neve più di qualsiasi altra cosa al mondo. Quel silenzio contiene i pensieri, li placa e li zittisce.
Telefonata e notizia ferale
Dopo quattro giorni da quel nostro incontro, quando al mattino è ancora buio, poco dopo le sette telefona il buon Vittorino per avvisare che Bruno Oboe era morto pochi minuti prima, a Valdagno, serenamente, dopo una notte di inquietudine, presso la casa del Centro Anziani Marzotto. Il sindacalista più umano, carismatico e più intuitivo che io ho conosciuto, in qualità di operatore della formazione, nella mia lunga permanenza nella Cisl, ci ha lasciati. Oltre ad aver perso un uomo dal profondo spessore e di un’intelligenza analitica lucida e imparziale, mi viene a mancare un grande amico, un fratello, un compagno di strada.
Chiuso nella mia camera ho pianto molto quella mattina, un pianto incontenibile, irrefrenabile, col cuore straziato, e mi sono rimesso in strada solo perché consapevole di aver ereditato, proprio da lui, una fede rude, rocciosa e trasparente.
In questo secolo, dove la vita è ridotta alla sola dimensione economica, si sono perse le tracce del sacro. Il sacro è diventato un ricordo lontano, soffocato dall’idea di onnipotenza autarchica dell’uomo. Per Bruno è poco chiedere a Dio la pace. A Dio dobbiamo chiedere la gioia. La pace è finita sulla bocca dei grandi, la gioia è rimasta nel cuore dei bambini. La pace è venduta, è comprata, è tradita, la gioia non può esserci rapita da nessuno.
La tenerezza dentro le prove della vita
Ho conosciuto pochi uomini che abbiano attraversato le prove del dolore, impresa assai rara, con la tenerezza intatta… Bruno Oboe è uno di quegli uomini. In quell’ultimo periodo l’ho incontrato spesso in ospedale, impossibilitato a comunicare con la voce, incrociando il suo sguardo limpido: quel modo di guardare degli uomini che credono. Lui è stato sempre uno di quei rari individui che dicono ciò che pensano e fanno ciò che dicono. Vederlo mi ha fatto passare tutta la tristezza, accumulata nel sindacato negli ultimi tempi, mi ha fatto scoprire la gioia che promuovere il sindacalismo ha senso se purifica gli uomini, se li lancia più in là dell’egoismo, se li salva dalla competizione e dall’avidità.
La laicità, come un valore assoluto, lui me la rendeva visiva ogni qualvolta che parlavamo del sud del mondo e del sud America in particolare, avendo viaggiato molto, soprattutto in Argentina, per la umile ricerca di suo padre. Commentava che nel sud del mondo ci sono povertà e repressione, mentre al nord c’è la depressione. Il nord vuol celebrare la propria neutralità nell’arte e applaude la vipera che si morde la coda. La cultura e la politica sono diventate beni di consumo, dove i presidenti si scelgono per televisione, come le saponette. La democrazia è un lusso del nord. Mentre nel sud si esibisce in teatro, dove non può dar fastidio: si sa che la politica può anche essere democratica, purché non sia democratica l’economia. Bruno non è mai passato per la crisi del dubbio. Ha atteso Dio all’angolo della strada, anche se qualcuno gli aveva detto che da lì non sarebbe passato. Ci è tornato, ma l’angolo non esiste più, la casa è scomparsa.
Ricordi di viaggio nel sud del mondo
Luminoso, generoso, il Cristo del Corcovado tiene fra le sue braccia la profonda notte di Rio de Janeiro. Sotto quelle braccia cercano rifugio i nipoti e i pronipoti degli schiavi. La polizia ne ammazza molti, ma molti di più ne uccide l’economia, mentre echeggiano spari e tamburi. I tamburi avidi di conforto e di vendetta chiamano gli dei africani. Da solo, Cristo non basta più. Ancora un ricordo: sto concludendo la mia visita nella casa dei bambini di strada (meninos de rua) quando sento un leggero rumore di passi alle mie spalle. Mi volto e vedo uno dei ragazzi più piccoli che mi sta seguendo. Nella penombra lo riconosco: è un bambino che non ha nessuno. Quel viso è già segnato dal dolore e gli occhi sembrano chiedere scusa o forse chiedono permesso. Gli vado vicino, egli allora mi sfiora il volto con una mano e sussurra. «Di’ a qualcuno che io sono qui». Il Signore sta sempre zitto fra le sue ragnatele, ma capisce tutto.
Lavorare assieme in solidarietà
La moralità è una virtù dell’uomo comune. È questo il punto centrale, che tutti riconoscono in Bruno Oboe: il carisma del profeta, l’uomo della mediazione autentica e dello spazio sempre abbondante che ha concesso allo Spirito in ciascuno di noi. Carisma che non si esaurisce nella Cisl o nel sindacato in genere. La risposta che Oboe dà, è quella di un uomo solidale, che afferma che ciascuno deve lavorare con le proprie risorse fisiche e spirituali, ma soprattutto che si torni presto a lavorare assieme. È opportuno fare quello che ogni contadino sa; che è discreto e non eroico, e parla qui l’erede della civiltà contadina. Giorno dopo giorno occorre zappare, sarchiare, vangare attorno al germoglio: favorire la crescita significa favorire la trasformazione silenziosa che si compie a poco a poco, sotto i nostri occhi, senza che ce ne accorgiamo, finché il grano sarà maturo e resterà solo da falciare.
La dote di chi vuol cambiare – ribadisce – è quella di sapere innescare un processo. Ciò comporta il passare dalla centralità dell’azione a quella della trasformazione. Nel sapore di umano, in quanto tale, sta tutta la grandezza e la bellezza di Bruno Oboe. Occorre abbandonare la presunzione di appartenere ai migliori e ai più forti – è il suo motto – perché la verità è una partecipazione autentica al dinamismo della realtà. Avrò sempre la sua amicizia e quindi il coraggio per riprendere la sfida, dura ma possibile, dei nostri tempi.