Ritornare a scuola
Tre anni fa, quasi alla soglia della pensione (Fornero permettendo), dopo trent’anni di lavoro con i bambini piccoli e i loro genitori, prima di riabilitazione poi di sostegno alla genitorialità, sono tornato a scuola, o meglio «nella scuola», la scuola con la S maiuscola, la scuola dell’obbligo e l’ho trovata molto diversa da come la ricordavo e piena di alunni stranieri e di bambini e ragazzi disabili.
La scuola di oggi e di ieri è naturalmente molte altre cose ma dal momento che il mio nuovo incarico prevede che mi occupi proprio di integrazione scolastica, da tre anni entro nelle scuole della mia città guardandole da questo angolo di sguardo. Naturalmente, già l’accostamento tra alunni stranieri e alunni disabili è di per sé un punto di vista non scontato. Non l’ho scelto io e me lo sono trovato già fatto ma devo dire che, a parte che esiste un gruppo sempre più numeroso di minori che assomma le due condizioni – e quella dei «disabili stranieri» è categoria che va continuamente presidiata per evitare che disagi e disorientamento culturale e linguistico della migrazione vengano letti in termini di patologia organica – indubbiamente per molti versi si tratta proprio degli «ultimi» della scuola di oggi.
Stranieri e disabili tendono negli ultimi anni entrambi a crescere di numero e questo spaventa il mondo della scuola, le famiglie e sempre più spesso anche gli amministratori, sia per ragioni squisitamente politiche che di spesa, ma al di là di tutto è bene comunque ricordare sempre come sia gli uni che gli altri siano in realtà categorie generali che comprendono al loro interno situazioni tra loro diverse, a volte anche profondamente. La gravità dell’handicap è naturalmente diversa da minore a minore, a volte le difficoltà si concentrano sul controllo del corpo e dei movimenti, altre sul piano cognitivo, altre ancora su quello elettivamente relazionale. Parlando invece di alunni stranieri occorre in via del tutto preliminare distinguere bambini e ragazzi nati e cresciuti per la prima parte della propria vita all’estero e che, almeno a Ferrara, costituiscono ancora la maggioranza degli allievi stranieri delle scuole secondarie, dagli alunni nati in Italia da genitori immigrati e che stranieri sono dunque essenzialmente per ragioni giuridiche e politiche nonostante costituiscano la grande maggioranza di tutti gli alunni stranieri nelle scuole preobbligo e ormai anche nelle elementari.
A cavallo di più mondi
Nella mia esperienza di questi anni, ci sono almeno quattro grandi criticità sulle quali occorre porre attenzione e lavorare, nella scuola e fuori di essa, per provare realmente ad accogliere i tanti bambini e ragazzi che oggi abitano la scuola italiana ma che con le loro famiglie provengono da altri mondi geografici, sociali, linguistici e culturali.
La prima, preliminare a ogni altra, è la messa in atto di azioni e comportamenti capaci di restituire rispetto e valore alle storie individuali e collettive di chi, spesso con grande coraggio e mai per ragioni banali, ha scelto di mettersi in viaggio e di affrontare precarietà e fatiche di inserirsi in un mondo così diverso dal proprio. Come farlo non è mai semplice perché, come insegnava già cinquant’anni fa Ernesto de Martino, chiede non folklore da operetta ma disponibilità a relativizzare il nostro proprio punto di vista e l’individuazione di strade originali per esprimersi, così come credo ha cercato di fare da quindici anni a questa parte nella realtà ferrarese la Scuola dell’Incontro valorizzando in modo serio appartenenze culturali e lingue materne.
In secondo luogo occorre senz’altro contrastare la concentrazione estremamente diseguale della presenza degli alunni di origine straniera all’interno delle classi e delle scuole, un problema che ha radici in buona misura all’esterno della scuola e nella struttura socio-abitativa delle città, ma che anche dall’interno del mondo scolastico può trovare misure correttive e di contrasto importanti, come il Protocollo cittadino per l’accoglienza sottoscritto a Ferrara e in altre città emiliane.
C’è poi, credo, un impegno troppo poco sistematico, e quindi sostanzialmente insufficiente, della scuola italiana sul versante dell’insegnamento dell’italiano nelle prime fasi dell’inserimento nelle classi dei ragazzi neo-arrivati, che potrebbero invece giovarsi di dispositivi formativi transitori più intensivi, capaci di metterli più rapidamente in grado di comunicare e capire.
Da ultimo, esiste un problema serio di dispersione scolastica che riguarda i ragazzi stranieri, sia neo-arrivati che nati in Italia, che si accompagna a una generalizzata rassegnazione a vederli avviati lungo percorsi formativi poco qualificati. Un problema che affonda le sue radici nella debolezza con cui, a partire dalla scuola primaria, si lavora per contrastare lo svantaggio che, assieme alle vicende migratorie dei genitori, si accompagna a condizioni di vita familiare precarie, con scarse e intermittenti risorse economiche e alla mancanza di contesti extrascolastici capaci di arricchire l’esperienza di questi bambini e ragazzi che vivono a cavallo di più mondi.
Da questo punto di vista la provocazione di Eraldo Affinati (L’uomo del futuro, Mondadori, 2016), che invita a considerare i ragazzi di origine straniera gli allievi su cui oggi don Lorenzo si sarebbe dedicato, non appare assolutamente infondata né priva di suggestioni. È infatti evidente che quella valigetta di esperienze e competenze con cui i bambini si affacciano alla scuola dell’obbligo e che Loris Malaguzzi voleva riempita oltre che dalla famiglia dalle scuole dell’infanzia, per molti dei bambini «giuridicamente» stranieri appare già in prima elementare drammaticamente povera, a partire dalle stesse competenze linguistiche apparentemente soddisfacenti sul piano della comunicazione quotidiana ma in realtà già assolutamente debole come lingua dello studio e quindi incapace di sostenere i più impegnativi percorsi successivi di apprendimento.
La valigetta vuota
Così, passano gli anni e mutano i contesti, ma le condizioni di partenza del viaggio educativo rimangono profondamente dispari. Se poi da qui passiamo a ragionare su chi quella valigetta o, se volete, lo zaino scolastico si ritrova per varie ragioni, cliniche o di altro tipo, fin dall’inizio gravemente zavorrato, il quadro non solo non cambia ma, se possibile, si appesantisce.
Tornare, dopo tanti anni, a stretto contatto con la scuola, inizialmente mi ha infatti riservato la gradita sospesa di un numero davvero altissimo di bambini e ragazzi con handicap inseriti in ogni ordine e grado scolastico, come se la legge 104 e le tante battaglie che l’hanno preceduta e accompagnata a partire dalla fine degli anni ’60, avessero davvero raggiunto la piena e completa inclusione di tutti i bambini nella scuola italiana, a prescindere dal loro grado effettivo di competenze e capacità.
Ma al di là dei numeri dei minori con handicap inseriti a scuola (e degli insegnanti di sostegno e degli educatori che «grazie» a essi lavorano), le cose stanno purtroppo in modo diverso e la strada della reale integrazione mi pare solo avviata se è vero che è ancora abbastanza abituale trovare ragazzi disabili nei corridoi o in aule speciali a loro dedicate e, specie man mano che si sale di ordine scolastico, la loro presenza all’interno degli istituti si fa sempre più difficile e i loro bisogni meno considerati e accolti. Sempre più ragazzi, peraltro, sono certificati, ma mentre calano i quadri clinici organici, aumentano progressivamente le manifestazioni di disagio e i comportamenti problematici, spia di un malessere a cui anche il contesto scolastico non appare estraneo e che l’incremento progressivo del numero degli insegnanti di sostegno non appare in grado di dare risposta, se non in termini di contenimento, quando non di puro controllo del disagio.
Un ospedale che cura i sani e respinge i malati
La grande battaglia avviata da Basaglia negli anni ’60 e che ha portato alla chiusura dei manicomi e al superamento delle classi speciali rimane così ancora straordinariamente attuale. Ma è una battaglia che per essere realmente vinta chiede una cosa fino a oggi realizzata solo in minima parte, vale a dire un cambiamento radicale del modo stesso di fare scuola. Solo se la scuola cambia profondamente e smette di assomigliare a «un ospedale che cura i sani e respinge i malati», come lapidariamente Lorenzo Milani ne scrive in Lettera a una professoressa, si potrà infatti realizzare una reale integrazione di bambini e ragazzi a diverso titolo «speciali», siano essi disabili o segnati da storie migratorie complesse e contesti familiari spesso obiettivamente difficili. I bambini di origine straniera, nemmeno quelli di origine rom che tanto preoccupano le nostre scuole, non sono naturalmente malati (anche se a molti oggi sembrerebbe più semplice e utile considerarli tali facendoli il più possibile «certificare») e nemmeno, a rigore, lo sono gli alunni portatori di handicap (che al massimo, e non sempre di una patologia organica, portano solo gli «esiti»).
Oggi, dopo cinquant’anni di lotte per l’integrazione scolastica, sarebbe certamente scorretto dire che la scuola italiana li «respinge» – se non altro per il numero crescente di insegnanti di sostegno che dalla loro presenza ricavano lavoro e reddito – ma certo siamo ancora molto lontani dal poter dire che essi siano realmente integrati, evitando che siano precocemente emarginati ed estromessi dalle loro classi (gli alunni disabili). Così le nostre scuole – non proprio tutte in verità, perché a Ferrara come in ogni città italiana esistono per fortuna anche scuole eccellenti e insegnanti capaci e impegnati nell’integrazione degli alunni disabili e nell’inclusione degli stranieri – accolgono oggi tutti i bambini, ma a tutti propongono fondamentalmente di adeguarsi a quanto esse da sempre offrono, prescindendo completamente dal valorizzare capacità e percorsi individuali.
Se la scuola italiana non cambia, diventando qualcosa di profondamente diverso da un luogo di soli apprendimenti curriculari e sempre più un luogo di crescita di esperienza di vita, la presenza tra i suoi allievi di tanti ragazzi continuerà a costituire motivo di lavoro per tanti insegnanti e di parziale sollievo per le famiglie dei ragazzi, senza però che i ragazzi stessi facciano esperienza di una vera accoglienza e inclusione.
Tullio Monini
pedagogista,
servizio integrazione scolastica
minori, disabili e stranieri,
comune di Ferrara
La Scuola dell’Incontro
Da molti anni a Ferrara l’Amministrazione Comunale si impegna nell’insegnamento della lingua italiana a bambini e ragazzi neo-arrivati e, in modo originale, anche alle madri straniere con bambini fino a 3 anni che per due giorni alla settimana possono frequentare con i loro piccoli un corso di italiano appositamente pensato per loro all’interno dell’Elefante Blu, un servizio educativo comunale per bambini e genitori.
Ma dal momento che non è facile vivere qui, quando si parla una lingua che a nessuno in Italia sembra interessare, che nessuno studia a scuola o peggio che, come per chi proviene dal Magreb, è oggi a tutti gli effetti solo la lingua del nemico, da quasi quindici anni all’interno dell’Elefante Blu (e ora anche di una scuola media statale) è attiva anche La Scuola dell’Incontro, che ogni settimana propone corsi di arabo per bambini e ragazzi di famiglia arabofone ma non solo, e corsi di lingua urdu e di inglese. Perché, come recita il motto del Dalai Lama sul programma della scuola, occorre «donare a chi ami ali per volare, radici per tornare e motivi per rimanere».
T.M.
Il protocollo cittadino di accoglienza degli alunni stranieri
Garantire pari opportunità a tutti i minori che frequentano le scuole italiane e il diritto di ognuno di loro a un percorso scolastico adeguato alle proprie caratteristiche, richiede necessariamente un approccio in grado di riconoscere e rispettare le differenze, le diverse risorse e competenze, l’eterogeneità delle esperienze e dei punti di vista ma insieme a questo anche una serie di misure organizzative, di dispositivi e di procedure condivise che garantiscano a tutti i minori che entrano nella scuola, a seguito di un ricongiungimento familiare, orientamento e supporto adeguati, omogenei e di qualità fin dal primo momento in cui i loro genitori prendono contatto con il sistema scolastico italiano per l’iscrizione.
Per queste ragioni – dopo un lavoro preparatorio durato oltre un anno da parte di un apposito gruppo di studio di dirigenti scolastici, insegnanti e operatori comunali supportati da esperti dell’Università di Venezia – il 4 aprile 2017 il sindaco di Ferrara, il responsabile dell’ufficio scolastico provinciale e i dirigenti di tutte le scuole statali e paritarie cittadine (oltre che i rappresentanti delle principali organizzazioni sindacali e imprenditoriali ferraresi) hanno sottoscritto un Protocollo di intesa che definisce linee guida condivise e vincolanti, alle quali ogni scuola ferrarese deve attenersi quando accoglie un alunno straniero e che assegna a una Scuola Polo l’incarico di presiedere e monitorare la prima accoglienza e l’equa distribuzione delle iscrizioni degli alunni neo-arrivati all’interno dell’intera rete scolastica cittadina.
T.M.