Il sogno di un’altra scuola

di Affinati Eraldo

Hanno quindici, sedici anni. Arrivano da ogni parte del mondo. Quando entrano in aula, per salutarti si mettono la mano sul cuore, come se avessero fatto goal. E, al termine della lezione, ti danno il bacetto sulla guancia. Anime candide? Certo che no: alcuni di loro potrebbero aver già visto usare il coltello, non solo a tavola. Questi adolescenti arabi, afghani, bengalesi, africani, sanno distinguere i buoni dai cattivi e si regolano di conseguenza. L’Italia, una secolare idea linguistica che poco più di centocinquant’anni fa è diventata vera, li chiama all’appello: Mohamed, Ivan, Alì, Gabriel… Se ci siete, battete un colpo. Quando direte «presente!», anche noi avremo avuto un senso.

Ieri Moktar, ragazzo di Dacca, ha intonato una canzone d’amore. È stato il suo modo per ringraziare l’insegnante delle due ore che lei, docente in pensione, gli aveva dedicato. Abbiamo chiesto il significato del ritornello e lui, col sorriso sulle labbra, ha sillabato: «Io tu, deci, sento, mile volta, tuto sieme». La settimana precedente Puya, proveniente dalle campagne intorno a Teheran, ha letto Petrarca: «Solo et pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi et lenti». Il suo accento iraniano, modellando i celebri versi, ce li restituiva con forza nuova, come se fossero stati decorati.

La città dei ragazzi

Sono queste le storie della Penny Wirton, la scuola di lingua italiana per giovani e adulti migranti che abbiamo fondato, dieci anni fa, nella chiesa di San Saba, sull’Aventino, nel centro dell’Urbe imperitura, dove padre Stefano Fossi ci concesse l’uso di qualche locale. Poi abbiamo cambiato tanti spazi senza trovarne mai uno stabile, ma crescendo sempre.

Penny Wirton e sua madre è il titolo di un romanzo per ragazzi composto da Silvio D’Arzo,àgrande scrittore italiano, il cui protagonista è un adolescente pronto a tutto, proprio come Hafiz e Mihai. Da questa esperienza io e mia moglie, Anna Luce Lenzi, entrambi laureati su D’Arzo, abbiamo ricavato due manuali: Italiani anche noi (Il Margine, Trento) con cui aiutare non solo chi apprende, ma anche chi insegna la lingua italiana. Quanti siamo? A Roma duecento volontari per altrettanti studenti. In questi anni sono già passate da noi migliaia di persone.

Detto così, sembra chissà cosa. In realtà, lo sappiamo, è una goccia nel mare. Ma, come ci ha fatto capire Dietrich Bonhoeffer, sentire di essere insufficienti di fronte al richiamo dell’altro, rappresenta il primo stadio della coscienza etica. Tutto cominciò nel momento in cui io, insegnante di lettere nell’istituto professionale per l’industria e l’artigianato «Carlo Cattaneo» di Roma, chiesi al mio preside di essere trasferito nella succursale posta all’interno della Città dei Ragazzi, la storica comunità educativa fondata nel 1951 da monsignor John Patrick Carroll-Abbing per accogliere adolescenti in difficoltà. Un tempo erano italiani, oggi provengono dai cuori di tenebra del nostro pianeta. Questi «minorenni non accompagnati» si autogovernano. Eleggono un sindaco. Dispongono di una moneta locale: lo scudo. Giocano a pallone. Frequentano corsi di ceramica. Imparano a usare il computer. Vanno a scuola. Diventano adulti. Quando raggiungono la maggiore età, devono conquistare l’autonomia economica: trovare un lavoro, pagare l’affitto, fare la spesa.

Insegnare alla Città dei Ragazzi è stata per me una grande esperienza umana. Se entri in una classe composta da giovani afghani, nigeriani, albanesi e rumeni, non puoi pensare di svolgere semplicemente il programma. Devi fare molto di più. Ottenere la fiducia delle persone che hai di fronte. Metterti in gioco. Non accontentarti del ruolo professionale che eserciti. Esporti. Essere, al tempo stesso, amico e maestro dei quindicenni che ti osservano mentre spieghi. Assumere la responsabilità dello sguardo altrui. Quando torni a insegnare in un’aula tradizionale, non sei più lo stesso. Cerchi di rompere la «finzione pedagogica», quel meccanismo teatrale che spinge chi sta in cattedra a proteggersi dietro la maschera del docente e chi sta dall’altra parte ad assecondare la recitazione, per cui non è più importante ciò che si impara davvero, bensì quello che risulterà dalla valutazione che verrà data.

Come mettere le mani sul fuoco

In un mio romanzo autobiografico, intitolato per l’appunto La città dei ragazzi, spiego cosa succede nel momento in cui si decide di uscire dal mansionario. È come mettere le mani sul fuoco. Ti puoi bruciare. Però cominci a capire qualcosa di te stesso e degli altri che, se non fossi così vicino alla fiamma, ti sfuggirebbe.

Omar e Faris erano due ragazzi arabi venuti in Italia a dodici anni. Parlavamo spesso, io e loro. Mi raccontavano la vita che avevano trascorso da bambini, in prossimità del deserto marocchino, insieme alle famiglie. Il Corano imparato a memoria. I mercati nella sabbia. I giochi vicino al pozzo. La fuga verso Tangeri e poi Gibilterra… Non potevo limitarmi ad ascoltarli. Nacque così l’idea di riaccompagnarli a casa quando fossero diventati maggiorenni. Volevo sapere un mucchio di cose: perché erano partiti, conoscere i loro genitori. Risalire la corrente del fiume tumultuoso d’umanità di cui noi osserviamo soltanto la foce.

Alla sorgente, forse non così pura e incontaminata come ingenuamente avrei potuto supporla, ho trovato mio padre, scomparso da qualche anno, riuscendo perfino a parlare con lui, figlio illegittimo, orfano costretto a vivere da solo nella Roma degli anni Trenta. Nelle piane desertiche di Khouribga, a duecento chilometri da Casablanca, ho toccato con mano la radice della mia duplice vocazione di insegnante-scrittore, come se, attraverso Omar e Faris, e coloro che sono venuti e verranno dopo di loro, volessi risarcire mio padre di ciò che lui non ebbe la fortuna di avere: soprattutto la capacità di sciogliere con le parole i nodi della vita.

Alla Città dei Ragazzi nacque anche un altro mio romanzo, Vita di vita, in cui racconto un viaggio in Gambia da me fatto insieme a Khaliq per ritrovare sua madre. E, a ben pensare, anche l’ultimo libro che ho pubblicato, quello dedicato a Don Lorenzo Milani, L’uomo del futuro, nonàsarebbe nato se non fossi passato da quella straordinaria comunità educativa.

Lo specialista dell’avventura interiore

Chi è l’insegnante? Io lo definisco così: lo specialista dell’avventura interiore. L’artigiano del tempo. Il mazziere della giovinezza. Se ha fatto bene il proprio mestiere, i suoi allievi gli resteranno dentro. Li ricorderà sempre, uno per uno, simili a tamburini che, in certe stagioni, hanno dettato il ritmo nella grancassa della sua esistenza. E loro non potranno dimenticarsi di lui. Lo conserveranno nella memoria come una controfigura del padre: l’atleta che compie un’azione rischiosa in sostituzione del protagonista. Dire di no, infatti, non suscita consenso, ma è talvolta più necessario che dire di sì. Oggi i ragazzi sono lasciati da soli, nel vuoto dialettico, privi di ostacoli da superare. Proprio come i loro insegnanti, gli unici ormai a doverli richiamare ai valori della serietà, del rigore e della concentrazione in una società che punta sulla bellezza, sulla sanità e sulla ricchezza. Questa solitudine accomuna entrambi in modo lancinante.

Ma i miei allievi sono stati anche, per lunghi anni, quelli italiani. Adolescenti pluribocciati, indisciplinati, problematici, ribelli, reduci da fallimenti d’ogni tipo. L’esperienza coi giovani migranti mi ha aiutato a intercettare l’energia cieca di Mariano, Simone, Fabrizio e Daniele. Ogni tanto capita che proprio qualcuno di questi cosiddetti ragazzi difficili, ai quali ho dedicato l’Elogio del ripetente, si affianchi alle insegnanti della Penny Wirton. Luca, ad esempio, che detta a Samuel, coetaneo del Togo, il verbo essere. Lo stesso scolaro strafottente che entrava fumando in classe, quello che non aveva voglia nemmeno di aprire il quaderno, controlla gli esercizi di Abu, il piccolo profugo appena arrivato a Roma. Lo ha fatto per un anno intero con una costanza e una puntualità sorprendenti.

È uno spettacolo vedere il ripetente accanto alle eccellenze. L’ultimo della classe che lavora insieme al primo, entrambi uniti per aiutare il nuovo arrivato. Insieme a Luca, ricordo Barbara e Alessia, studentesse del Liceo Classico «Virgilio», che spiegano l’alfabeto a Munir e Sahid, concentrati e intimoriti. Oppure Michelle e Aya, del liceo psicopedagogico «Machiavelli», congolese ed egiziana di seconda generazione, quindi perfette come mediatrici culturali, pronte a mettersi in gioco insieme agli altri volontari. Da due anni l’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla riforma ci consente di moltiplicare lo spettacolo: solo a Roma nell’anno scolastico 2016-2017 abbiamo stretto convenzioni con quindici licei e hanno fatto il tirocinio presso di noi, opportunamente formati, 266 studenti.

La scuola penny Wirton

Alla Penny Wirton non si fanno distinzioni: musulmani, cattolici, ebrei, atei, suore, anticlericali, italiani, stranieri, madri con bambini, studenti, operai, badanti, vagabondi. Da tempo la nostra scuola ha raggiunto anche una dimensione nazionale che va oltre la città di Roma. In questo momento ci sono più di trenta scuole in tutta Italia che si rifanno al nostro stile didattico. Non abbiamo alcun tipo di finanziamento, né pubblico, né privato. Se bisogna pagare le fotocopie, i quaderni, le penne, i libri o i vocabolari bengalesi, i nostri soci lo fanno da soli.

Quante volte cade a terra e quante volte può rialzarsi in piedi un ragazzo di sedici anni? Me lo chiedo spesso quando vedo Giulio e Christian, adolescenti di borgata che sono chiamati quasi ogni giorno a passare attraverso invisibili cerchi di fuoco: ipocrisie, indifferenze, egoismi, incurie, superficialità e smemoratezze. Si tratta di nemici invisibili eppure pericolosi almeno quanto i fiumi in piena e i deserti aridi che hanno dovuto superare Izhaq e Mohamed, coetanei venuti da molto lontano. Ritrovare oggi insieme, nella stessa aula, Paolo e Ismail ha qualcosa di miracoloso: così distanti, così vicini, gli uni come frammenti italiani, gli altri quali schegge di un mondo che ha la febbre alta.

Ci sono anche gli adulti. Eccole lì, Lena, Tatiana, Katerina, Barbara, coi loro maglioni pesanti, le camicette fuori moda, i capelli grigi. Se qualcuno le definisse «ripetenti della vita», non si scandalizzerebbero. Vengono dalle pianure spoglie, dai paesi sprofondati nel fango, dalle fattorie isolate dove fa notte alle quattro di pomeriggio. Hai l’impressione che queste donne, russe, ucraine, moldave, polacche, sedute intorno al tavolo con Silvia, Angela e Claudia, le loro professoresse, fino a qualche settimana fa avessero inforcato gli occhiali da vista solo per introdurre il filo nell’ago, non certo nel tentativo di controllare le doppie o mettere gli accenti al posto giusto. Ti pare quasi di vederle, alla luce fioca delle stanzette dove abitavano prima di venire in Italia a fare le badanti.

E anche Igor, Vasilj e Sergej, fasciati nei giubbotti di pelle scura, più simili a camionisti che a studenti, lo sguardo fisso sul libro degli esercizi, recitano a Giovanni, uno dei nostri docenti più assidui, ingegnere prestato alla cattedra, i verbi irregolari come avranno fatto chissà quante volte davanti ai maestri che, severi, li interrogavano quand’erano bambini.

Il miele di Kafka

Mi viene in mente quello che scrisse una volta Franz Kafka a Elias Canetti spiegandogli perché avesse deciso di aiutare senza compenso i profughi ebrei a Berlino: «Da questo lavoro si può ricavare più miele che da tutti i fiori di Marienbad». Credo che possa valere anche per noi. Quaranta, cinquanta studenti per quasi altrettanti professori, in un rapporto che cerca di avvicinarsi quanto più possibile a quello che stabilirebbero due amici, due amiche. Come se parlare e scrivere fossero acqua, pane e vino. Senza classi. Senza voti. Senza registri. Senza burocrazie. Cercando di dare a ognuno ciò di cui lui o lei ha bisogno. Matiur entra in aula, sorride, ti stringe la mano e si mette a sedere. Tu subito gli consegni il foglio con la matita e lo aiuti a decifrare l’alfabeto. Poi a gruppi sparsi, arrivano gli altri: Abdì, Raissa, Dimitri, Mascia…

Ricordo Nicolin, il ripetente assoluto. Albanese di Durazzo, poco più giovane di me, manovale, sguattero, facchino. «Ho la testa dura», diceva di sé stesso, «imparo poco. Scordo tutto!».

Mese dopo mese commetteva sempre gli stessi errori. Mi chiedeva di scrivergli sul cellulare messaggi d’amore a una donna di cui s’era innamorato. Oppure mi raccontava della rivolta contro Enver Hoxha, il dittatore comunista, alla quale aveva partecipato: «Stavamo tutti in terrazza a sparare al cielo coi Kalashnikov».

È stato Nicolin a farmi capire che le vie del ripetente sono infinite.

Quanto vorrei che Penny s’intrufolasse nelle aule delle scuole pubbliche e, con la sua simpatica intraprendenza, aprisse le finestre facendo entrare un po’ d’aria nuova per scompigliare qualche modulo e rinfrescare il respiro!

Qualcosa già si diffonde, grazie all’iniziativa dei numerosi volontari che in molte città italiane, più di trenta, hanno chiesto di aderire al nostro stile di insegnamento: da Udine a Bari, da Milano a Cosenza, da Forlì e Faenza a Lucca, Viterbo, Sezze, Monterotondo…

Stanno tutti seduti sui grandi banconi a leggere e scrivere sui quaderni colorati. Le insegnanti accanto a loro scandiscono lente: bo-cca! E si toccano le labbra. Na-so! E lo indicano con il dito. Pie-de! E si chinano per mostrarlo. Abdul, occhi sgranati sulla pelle scura, esclama: bu-cca. Imran, nello stupore della nuova scoperta, ripete: no-so! Omar, al massimo della concentrazione, dichiara: be-de!

È una scuola così, con tanti studenti che arrivano da ogni parte del mondo, con almeno sessanta nazionalità rappresentate, e afferrano le parole come frutti dall’albero. Ciao Hassan! Forza Matiur! Grande Silvester! Venite tutti qui a diventare italiani insieme a noi.

Un giorno andai a prenderli al centro della Caritas del Tata Giovanni, a Roma, dove lo spirito del compianto don Luigi Di Liegro regna ancora sovrano. Mi aspettavano nel giardinetto, intimiditi. Io ero l’unico bianco della singolare truppa. Durante il cammino dalle mura Aureliane fino alla scuola, la gente si voltava incuriosita. Siamo passati accanto a una camionetta della polizia parcheggiata davanti all’abitazione di qualche pezzo grosso: le guardie hanno fissato soprattutto me. Avranno pensato: chi è questo? Cosa fa? L’allenatore di calcio della Costa d’Avorio? Il capitano di un esercito coloniale? È forse un trafficante d’umanità?

Come avrei potuto spiegare la mia posizione? Saremo stati una ventina. Avevo messo Baker, pashtun poliglotta dal cipiglio marziale, in fondo al gruppo per raccogliere i ritardatari. Io guidavo la fila insieme a Megahed, coi jeans strappati e il cellulare attaccato all’orecchio. Dove stavamo andando? A imparare a pensare. Senza verbi non si vive. Senza nomi si muore.

L’inganno degli adulti

Con gli anni mi sono reso conto da dove vengono quelli che il codice definisce «minorenni non accompagnati». Uno farebbe presto a dire: dal Bangladesh, dall’Egitto, dalla Romania, dal Camerun, dall’Afghanistan. Certo, questi, e tanti altri, sono i luoghi di provenienza geografica. Ma non bastano a farci comprendere la vera stazione di partenza. Gli adolescenti senza famiglia che guido verso la Penny Wirton hanno subìto il vecchio tradimento che da sempre gli adulti mettono in atto nei confronti dei giovani. Trascuratezza, noncuranza e insensibilità si sono mischiate, da una generazione all’altra, a polvere, fango e sangue, come l’acquaàalla pasta, il latte al miele, la notte al giorno. È questo ciò che unisce Marco a Rashedur, Paolo a Malick: l’inganno subito da parte degli adulti. Se ne rendano conto, oppure no, sono stati colpiti quando non potevano difendersi.

Adesso Joseph crede davvero che, fra qualche anno, diventerà l’idolo dei tifosi interisti, alla maniera del suo famoso connazionale, Samuel Eto’o; Leonid è sicuro che, appena sarà grande, tornerà a Chis¸inau trionfante sulla Bmw ornata di fiori; Ahmed è convinto di riuscire a spedire allo zio i soldi che serviranno per comprare il terreno nelle campagne intorno a Dacca. E Claudio pensa sul serio che gli basterà lavorare in un’officina meccanica, guadagnando milleduecento euro al mese, per raggiungere la felicità.

Chi avrà il coraggio di raccontare ad Abu la vecchia verità delle stelle finite nei fossi, a Ruslan la vicenda dei mari trasformati in rigagnoli, a Mustafà la cronaca dell’oro che diventa sasso, a Giovanni la storia di Pinocchio?

Dovranno farlo da soli nella lingua italiana, scoprendo le parole che noi saremo stati in grado di consegnare loro: tazze calde e mantelli di velluto, certo, ma anche spade e pugnali, perché ci sono esperienze che non possono essere vissute senza ferirsi.

È questa la ragione per cui quando Arif preme il pulsante del cartoncino sotto l’immagine del gatto e sente la voce registrata che gli risponde: bravo!, è come se ripartisse per un altro lungo grande viaggio. Proprio lui, che per venire in Italia ha superato a piedi i confini di mezza Asia, deve ancora conoscere sé stesso. Ma un percorso non meno faticoso dovrà compiere Gianluca se vorrà staccarsi per sempre dal volto la maschera fetida di chi lo ha abbandonato.

Nella nostra scuola c’è chi cerca un padre. E chi trova un figlio. Chi vuole soltanto qualcuno che lo guardi in faccia. A volte il guizzo di comprensione che brilla negli occhi di Sumon o di Florina ti fanno balenare il senso di una vita che si avvia, di un’altra che si riprende. E che dire del sorriso di Alina che si accosta con la mano piena di caramelle ucraine saldamente intenzionata a infilartele in tasca come ricompensa per quello che ha ricevuto? La piega della sua bocca porta inciso il segno delle amarezze conosciute, ma lo sguardo va già oltre e ha la luce di chi è pronto a ricevere su di sé la fortuna o la grazia di un tempo migliore.

Nel giugno del 1967 moriva, a soli 44 anni, don Lorenzo Milani, il più amato e il più odiato, il prete e il pedagogo più discusso del nostro Novecento. Pochi mesi dopo, a firma sua e dei suoi ragazzi, usciva Lettera a una professoressa, la sua opera più matura e insieme più controversa.
A cinquant’anni dalla sua scomparsa, attorno al priore di Barbiana si sono riaccesi il dibattito e la polemica. A noi pare che la sua eredità, i suoi interrogativi, anche le sue provocazioni, non siano banalmente attuali – l’Italia e anche la scuola italiana sono molto cambiate – ma ci consegnino intatto un formidabile nucleo di scomode verità e di battaglie ancora da compiere.
Abbiamo scelto di ricordarlo raccogliendo la suggestione di Eraldo Affinati, che proprio a don Lorenzo Milani ha dedicato il suo ultimo libro e provando con lui a parlare della scuola di oggi e dei ragazzi di Barbiana del terzo millennio: i bambini e i ragazzi stranieri, i nomadi, i minori disabili, gli svantaggiati, insomma «gli ultimi» che ancora aspettano, a scuola e fuori dalla scuola, accoglienza, integrazione, giustizia.
La redazione di Madrugada