Solo chi ha sofferto è credibile

di Stoppiglia Giuseppe

Attraversare il guado

«Il politico guarda alle prossime elezioni,
l’uomo di Stato alla prossima generazione».
John Rawls

«L’abbondanza si gode con più dolcezza,
se meno da essa dipendiamo»
Epicuro

Un incontro atteso

Nel mezzo di Corso Palladio a Vicenza fui avvicinato da una ragazza dolce e carina, alla quale non esitai un istante a dare l’obolo richiesto per il tempio indiano. Con mia sorpresa ne seguì l’invito per il pranzo e la cena: cibi vegetariani, atmosfera amichevole. Fu così che mi trovai per la prima volta a deporre le scarpe all’ingresso di un tempio indiano e a partecipare alla cerimonia rituale con la danza sacra e la simbolica rosa, che, passata di mano in mano, l’officiante (una donna) depose alla fine nelle mie. Il cibo offerto era veramente buono, ben diverso da quello piccante e a me indigesto servito, di solito, nei ristoranti indiani.

Nel grande tempio il colpo d’occhio era straordinario: un tripudio di colori e di forme. Mi colpì la felicità degli ospiti, tutti giovani, di tante razze e nazionalità, rigidamente divisi in maschi e femmine.

Un ragazzo italiano mi raccontò come avesse trovato pace, amicizia, serenità e sicurezza in quella comunità. La disciplina è severa contro il disordine sessuale, il fumo, l’alcool, le droghe e tutte le eccitazioni violente che portano la gioventù alla deriva. «Resta con noi» – mi disse una ragazza dolcissima al momento della partenza. C’era tanto amore nei suoi occhi: come fosse mia figlia.

L’aria di Vicenza mi avvolse tiepida, voluttuosa e vibrante di sole. La sentii splendida ed esaltante, in questo mio primo abbraccio delle strade, delle piazze, dei monumenti, che ravvisavo tutti come se li avessi lasciati ieri. Tappe della vita, l’infanzia, mia madre e le sorelle, la giovinezza colma e intatta… e poi i giorni disperati. Vicenza, odore di casa, sapore di luce, ma non tutto qui nel Veneto, sonnolento e intrigante, è «cuore».

Confronto generazionale

Tra gli esperti di pedagogia si osserva che le generazioni adulte o anziane (come la mia) sono state educate ai doveri e i giovani d’oggi ai diritti, alla felicità. È una semplificazione, ma c’è del vero. La parola felicità non risuona, infatti, nel linguaggio della nostra formazione quanto il richiamo ai doveri. La felicità è vista come abbondanza e affascina tanto i ricchi quanto i poveri, ed è proporzionata alla quantità di prodotti di cui si può disporre. Questa felicità, comperata e garantita dal potere, finisce per identificarsi nel denaro; è questo un inganno antico quanto il mondo e non è un fenomeno nuovo. La moltiplicazione dei bisogni ci indebolisce e ci rende più vulnerabili, perché offriamo più bersagli ai colpi della sorte.

La felicità non è un oggetto, ma la facoltà di una persona che vede e nutre uno scopo: è un cammino più che un possesso. Quella che il caso ci toglie non è la felicità, ma una fortuna passeggera. Se è nel nostro essere, più che nel nostro avere, comincia a diventare gioia nostra, che nessuno potrà toglierci.

L’arte del dolore

Quale frutto contiene la sofferenza? O non è invece solo un tempo perduto, morto, della vita, una serpe da scuotere via, anche se ricade su altri? Il frutto della sofferenza c’è ed è lo scavo dello spazio interiore, a meno che il dolore sia talmente pesante da ucciderti e solo la morte porti pace, ma non è questa la situazione che qui desidero presentare. La sofferenza permette all’anima di scoprireàin sé nuove profondità, insospettate risorse, capacità di catturare e imprigionare il dolore che ti assale. Se non ci si lascia deturpare dall’odio (che è frettoloso e spaventato, e rifiuta di provare la propria pazienza), l’anima colpita e offesa scopre sé stessa, diventa coscienza, cresce e si dilata, conquista altri spazi, si irradia come la luce in ogni direzione, fino a superare, avvolgere, scaldare e redimere la causa (naturale e umana) della sofferenza che le viene inflitta. Scriveva Etty Hillesum, che nella tempesta di dolore e di offese amava appassionatamente la vita…, che la «sofferenza non è al di sotto della dignità umana… la maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure».

Ho sentito, di recente, una profonda interpretazione delle parole dell’apostolo san Tommaso, quando gli altri gli dicono che hanno visto Gesù risorto: «Se non vedo nelle sue mani l’impronta dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Tommaso vuol dire: non credo a chi non ha pagato. Solo chi ha sofferto è credibile.

Se il seme non muore

Molti dicono che il momento di crisi di Macondo dipenda dal fatto che i fondatori sono vecchi e non hanno più la forza né la fantasia di offrire nuove proposte e di reggere il timone. La considerazione è vera. L’arco della vita è breve e le forze calano. La ragione della crisi è, però, molto più complessa. Se fosse solo una questione di età e di forze, allora cadremmo nel fatalismo. Forse è più vera la frase del vangelo che dice: il seme che cade a terra, se non muore non porta frutto.

La missione di Macondo è la relazione e si trova a camminare in una società della competizione. Se noi non moriamo a questi valori della competizione e del narcisismo, Macondo diventa una eredità che farà solo litigare gli eredi, per appropriarsi di parole magiche. L’uomo non è solo stanziale, ma è anche pellegrino, migrante, viandante, nomade. Ed è un modo di mettere insieme relazioni nuove, con uno spirito aperto, intelligente, solidale. La domanda, retorica se si vuole, e forse pure moralistica, è: dove si coltivano gli affetti, dove matura l’empatia, dove si sviluppano i valori di solidarietà e fiducia?

Inversione di rotta

C’è stato un tempo in cui si pensava che una buona informazione sessuale fosse sufficiente per superare le barriere tra uomo e donna; si pensava che la rivendicazione dei diritti fosse sufficiente per costruire un mondo migliore, di parità e giustizia. Sono stati passaggi importanti, ma non definitivi.

Occorre preparare gli uomini e le donne agli affetti, all’empatia, al riconoscimento degli obblighi, prima ancora dei diritti? alla comprensione dei moti dell’animo e della mente dell’altro e di un mondo che vive nella diversità e nella diversità costruisce nuovi spazi? Sono domande.

Serve, allora, una vera inversione di rotta, secondo l’idea straordinaria di partecipazione consapevole, tipica del nostro genio italico. Cosa ci hanno insegnato gli ultimi dieci anni di crisi?

Finora abbiamo cercato solo alternative puramente economiche. Per andare verso una transizione «post-crisi», è indispensabile una dotazione concettuale nuova. Siamo schegge in balìa degli eventi in un mondo sempre più complesso. Il tempo è maturo per pensare a una soluzione che non si limiti a riportarci al 2007, ma che ci proietti al 2025. L’umore sociale giustifica un certo allarme, visto che l’uomo della strada, disprezzato e inascoltato, ne capisce molto di più delle élite che ci governano, la cui ricerca affannosa di consenso coltiva populismi e pulsioni fuori controllo.

Questo modello richiede per contrasto un’idea forte, che parta dal concetto di «generativa sociale», da coltivare nella figura di chi incarna il desiderio di «creare valore» sociale attraverso l’attività che esercita assieme agli altri. Cittadini che puntano a diventare un’economia dell’esistenza, produttrice di un saper vivere e un saper fare nel nuovo modello di co-produzione e di co-consumo.

Per il genio italico l’essere in relazione all’ambiente, agli altri e al contesto, asse di una società in cui il cittadino cessa di essere solo consumatore per diventare collaboratore di un valore condiviso, è facilitato dal fatto che riusciamo a tenere assieme ciò che altrove è separato: le mani con la testa, il singolo con la comunità, ma soprattutto il particolare con l’universale.