Dar da mangiare agli affamati
«Guasto è il mondo, preda di mali che si susseguono, dove la ricchezza si accumula e gli uomini vanno in rovina».àOliver Goldsmith
Dal buio per sfamare gli invisibili
Arrivano alla Stazione Ostiense verso le 20; è buio e fa freddo. Tirano fuori dall’auto due pentoloni di pasta e lenticchie calde; da altre auto vengono scaricati pentoloni, vassoi di frittate, piselli e funghi, arance e mandarini, succhi di frutta e acqua. Qualcuno apre due tavoli da campeggio sui quali si appoggiano i viveri.
Dal buio, come fosse una quinta di teatro, si materializzano delle figure: decine e decine di giovani dalla pelle lucida nerissima, poi altre persone, donne e uomini, bianchi, molti anziani vestiti dignitosamente, poi «barboni» ricoperti di strati di stracci, giovanissimi dalla pelle di un nero meno scuro, persone dai capelli e occhi chiari.
Senza che nessuno proferisca parola, si mettono ordinatamente in fila e mangiano senza parlare; i primi, i più veloci, si rimettono in fila e qualcuno li fa tornare indietro per sfamare chi non ha ancora mangiato. Dalla velocità con cui si mangia sembra non avere importanza che il cibo sia buono, cucinato con cura, caldo. Finito di mangiare, duecento persone scompaiono nell’oscurità della sera, diventano invisibili. Si pulisce, si chiudono i tavoli, si rimettono i pentoloni e i vassoi nelle macchine. Alle 21 la stazione riprende le sue funzioni abituali.
Ma non basta il cuore
Dal 2007 un signore di 86 anni, senza aiuti istituzionali, sfama i senzatetto della capitale. Infaticabile, Dino Impagliazzo porta avanti la sua opera di carità senza sosta, grazie al contributo di amici, familiari, conoscenti che ogni mattina sottraggono cibo e avanzi alla distruzione e allo spreco per trasformarli in pasti caldi e nutrienti: primo, secondo e frutta, il sabato e la domenica nella stazione Tuscolana e il lunedì e martedì in quella di Ostiense. Con il tempo è nata una associazione, RomAmor Onlus, che raccoglie 300 volontari garantendo circa 30.000 mila pasti l’anno. Commercianti e supermercati regalano i prodotti alimentari avanzati o in scadenza; altri volontariàsi occupano di recuperare e trasportare il cibo, altri ancora di cucinarlo e distribuirlo.
A usufruire dei pasti all’inizio erano soprattutto afgani e magrebini, ora in fila ci sono anche tanti italiani, persone provenienti dall’Europa dell’Est e dal Nord Africa. Una realtà fatta di persone con alle spalle storie toccanti: fuga dalla guerra, dalla fame, dalla violenza, povertà, infermità mentale e tanto altro ancora. Un popolo di ombre. Alcuni ritornano, altri spariscono: dove, nessuno lo sa.
Sono tanti gli esempi di carità fatta da privati che si organizzano nelle città per rendere meno dura la vita di coloro che mancano anche dell’essenziale; «vite di scarto» come le chiama Bauman, inutili alla produzione e al consumo, «rifiuti umani» che nessuno vuole, da espellere o nascondere.
Se la mente non cambia
TINA (there is no alternative), il terribile motto coniato da Margaret Thatcher che sosteneva che la società non esiste (esistono solo gli individui), sembra far presa anche tra coloro che si occupano dei guasti della società.
Da una parte l’abbondanza, lo spreco; dall’altra la fame: nessuno si sorprende più delle tante persone simili a spazzini che frugano nei cassonetti, dei vecchi che, alla chiusura dei mercati rionali, raccolgono da terra gli scarti di verdura e frutta. Uno scenario che caratterizzava le prime città industriali e che ora riaffiora nelle metropoli moderne. Dov’è lo sviluppo?
Da una parte migliaia di case sfitte, di edifici inutilizzati, dall’altra esseri umani che dormono nei tubi eternit, nelle grotte di tufo, sotto i cavalcavia, nei sottopassi, negli snodi dei bus (a Romaài senzatetto sono più di 10.000).
Da una parte chi dona, dall’altra chi riceve, una separazione di ruoli che toglie dignità e non produce cambiamento.
Da una parte operatori e volontari che lavorano nell’accoglienza, dall’altra episodi sempre più frequenti di violenze contro i diversi e una maggioranza indifferente che non vuole vedere e non vuole sapere. Camminando, scavalca mucchi di stracci che, troppo spesso, nascondono esseri umani infreddoliti dalla notte passata all’aperto.
Poeti si nasce, poveri si diventa
Facilmente si può diventare attivisti del bene, spinti da sentimentalismo, o, peggio, da egocentrismo e perdere la grande delicatezza necessaria quando si regala qualcosa che non dovrebbe mancare a nessun essere umano. Per difesa spesso si semplifica, dimenticando che siamo sulla stessa barca e che solo il caso ci ha fatto nascere da una parte o dall’altra del mondo. Don Tonino Bello scriveva che non si nasce poveri: «Si può nascere poeti, ma non poveri. Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti».
Aiutati e aiutanti possono rimanere schiacciati in un presente che non aiuta a capire perché le persone diventano povere, perché fuggono, un presente che neppure aiuta a capire come, una volta arrivati, i migranti possano vivere in un nuovo paese con leggi e usi diversi, come possiamo convivere insieme. Potrebbe aiutare mantenere dentro di noi il dolore che il contatto con l’altro, privato di tutto, ci crea. Non dobbiamo farci ingannare da un facile buonismo, perché solo così, forse, quella mano tesa, quella piccola luce accesa nel buio dell’indifferenza, quel gestoàdi nascente amicizia, potrebbe favorire un nuovo modo di vivere insieme.
Salire alle cause della povertà
Se non vogliamo andare verso una chiusura nei confronti di un’umanità ferita, che bussa alle porte delle nostre città, è necessario avere una consapevolezza delle cause di queste migrazioni, delle ragioni dell’aumento della povertà assoluta e relativa nel nostro paese, del drammatico ridimensionamento e smantellamento dei sistemi di welfare e, soprattutto, domandarsi come dovrebbe essere la nostra convivenza con chi arriva, come discutere, condividere i servizi, essere vicini di casa con persone così simili e così diverse. È necessario affrontare i conflitti, far dialogare coloro che vedono Cristo nel profugo e coloro che lo vorrebbero cibo per pesci; dialogare sul modo di intendere il bene comune, il futuro delle nuove generazioni, la qualità della vita, l’ambiente, combattendo insieme la diffidenza reciproca, creando fiducia e speranza.
«Il dovere morale dell’accoglienza» titola il manifesto di alcuni sindaci italiani siglato in Vaticano, in questi giorni, a conclusione dell’incontro tra 80 sindaci europei sull’immigrazione. Lo stesso dovere morale i sindaci, proprio peràfavorire l’accoglienza, dovrebbero averlo per i loro cittadini più poveri, diventati anche loro «vite di scarto», senza lavoro o con lavori precari, con servizi pubblici sempre più scadenti, trasporti insufficienti, istruzione sempre più carente, ghettizzati nelle periferie delle città. Cittadini che si sentono abbandonati dallo Stato, dalle sue amministrazioni, dalle istituzioni pubbliche, estranei, stranieri loro stessi e che, proprio per questo, trovano una parvenza di identità e di socializzazione combattendo coloro che sono più stranieri, colpevolizzandoli per la loro miseria, vedendoli come inquinatori della comunità. Il reciproco disagio, le ingiustizie condivise, non riescono a diventare motore e motivo di alleanze.
L’accoglienza va di pari passo con una società giusta in cui siano garantiti quei beni necessari come lavoro, istruzione, abitazione, sicurezza del reddito, garanzia di cure, che permettono di utilizzare con consapevolezza i diritti civili e politici. L’accoglienza che non deve essere rifiutata ci aiuta a ridiscutere i nostri modi di stare insieme, di essere comunità, di intendere la dignità umana. Forse è questa la vera sfida della modernità; l’alternativa è il ritorno alla barbarie.
Claudia Mineide
pedagogista, già docente a Roma Tre