La rabbia dei cittadini
Intervista a Stefano Allievi
Negli Stati Uniti Donald Trump è stato largamente votato da un ceto medio «bianco», che otto anni fa aveva votato per Obama e che è diventato più povero e più insicuro a causa della globalizzazione. Sono fenomeni in atto anche da noi? Come spiega la crescente rabbia che troviamo tra i cittadini?
Ci sono processi che avvengono sopra la loro testa (e non ci riferiamo solo all’immigrazione: ci riferiamo a tutto, in tempi di globalizzazione), senso di insicurezza (che non deriva dall’immigrazione, ma da qualcosa che la precede e la sovrasta: dalla rapidità dei cambiamenti ai processi di precarizzazione), difficoltà nella propria vita privata (i processi di impoverimento dei ceti medio-bassi e di maggiore difficoltà della vita di tutti sono evidenti, e spiegano molte cose che stanno accadendo negli ultimi anni, sul piano sociale, culturale e politico), e infine legati proprio alla gestione dell’immigrazione: perennemente emergenziale, difficoltosa (anche per la mancanza di collaborazione di molte istituzioni locali), spesso mal gestita, percepita come discriminante nei confronti dei bisogni degli autoctoni. Si spiega, dunque, che una parte della gente si senta più fragile, e in alcuni casi anche più rabbiosa e incattivita: l’anello debole perennemente sollecitato. Ma ci sono dei limiti nella libertà di manifestare la propria rabbia, che non può portare – come purtroppo accaduto – a distruggere alloggi adibiti per i rifugiati o a fare le barricate (Goro) per respingerli.
Chi semina vento… travisa le cause
Va anche detto che c’è stata una semina politica, in questi anni, che ha individuato nel migrante e nel profugo non l’effetto, ma la causa di tutti i mali. Questa semina ha nomi e cognomi, partiti e associazioni, e si riduce all’individuazione di un capro espiatorio buono per tutte le occasioni, anche elettorali. Così, degli immigrati, si dimentica volentieri che partecipano come gli italiani alla produzione di ricchezza del paese (con il surplus prodotto dagli immigrati si pagano circa 65mila pensioni di autoctoni), che in larga parte lavorano onestamente nelle nostre case, nelle nostre officine e negozi, e che del nostro paese condividono anche difficoltà e contraddizioni: e diventano solo il parafulmine delle nostre frustrazioni. E, dei richiedenti asilo, si dimentica che hanno unaàstoria concreta e individuale di sofferenze, che sono umani, e diventano una categoria astratta di nemici – capri espiatori, appunto. Di mali che non hanno prodotto. È questa semina culturale e politica che legittima e guida atti forti, estremi, che se fossero compiuti da altri nei nostri confronti non esiteremmo a definire barbari, come rifiutare l’arrivo di venti donne a Goro o distruggere l’appartamento in cui devono andare a vivere dieci ragazzi all’Arcella a Padova.
Puntare le forze sui veri obiettivi
La rabbia, dicevamo, ha le sue buone ragioni: l’obiettivo verso cui si indirizza è inaccettabile, nel contenuto, e nei modi. E oltre tutto non è, a sua volta, una soluzione ai problemi, e non è in grado di indicarla. È solo una fonte di impoverimento in più: morale ed economico, delle tasche e delle coscienze, dato che atti come questo non migliorano di nulla la nostra situazione materiale, degradando significativamente quella civile. Ma, forse, un modo di rispondere, civile, c’è: quello di far vedere che non è rappresentativo del modo di pensare e di agire di tutti, ma solo di qualcuno. E che altri darebbero invece volentieri una mano per risolverli, i problemi, anziché farli incancrenire. Concretamente. Materialmente. Per riparare i danni arrecati, anziché per arrecarne di nuovi.
Come spiegare quanto accaduto a Goro dove hanno fatto le barricate per respingere 20 rifugiati? A che cosa è servito il rifiuto?
C’è l’elemento del rifiuto degli immigrati, cui ormai ci stiamo abituando – e anche il rifiuto delle decisioni paracadutate dall’alto. Per qualcuno è anche rifiuto dell’odiato centralismo. Forse si può parlare anche di ribellione, o più propriamente di pulsioni ribelliste: contro quelle che consideriamo ingiustizie. Ma che possono prenderci quando ci troviamo a gestire un problema più grande di noi, che non capiamo, di cui ci viene catapultato a casa solo l’ultimo anello della catena, senza spiegazione delle concatenazioni precedenti, e non sappiamo cosa fare.
Intanto, colpisce il gesto. Contro cosa si è lottato? Meglio, contro chi? Undici donne, di cui una incinta, e otto bambini. Un esercito che dovrebbe fare tenerezza, indurre pietà, e che diventa simbolo di un’invasione che non c’è. Si capisce che molti abbiano parlato di perdita dell’umanità: che precede di molto la solidarietà civile e la religione. Ma c’è un ulteriore costo, che paghiamo tutti, e non solo gli abitanti di un paese che rifiuta gli immigrati. Messaggi come questo sono devastanti, vanno contro ogni logica di integrazione, vanificando persino il gesto straordinario del salvataggio in mare. Che faccia ricorderanno, quelle donne e bambini (e tutti gli immigrati che vedono il telegiornale) dell’Italia? Quella generosa di chi li ha salvati, nutriti, scaldati, o quella odiosaàdi chi ha rifiutato loro un letto e li ha insultati? Ameranno l’Italia, dopo, o la odieranno? E qual è il bene, e quale il male maggiore, per il paese?
Il ruolo ossessivo di stampa e TV
Detto questo, ne abbiamo visti anche altri, di segnali. Una minoranza rumorosa, ma anche una maggioranza silenziosa, che talvolta si riprende la parola: nella voce di un sindaco capace di comprendere la sua gente ma anche di non condividerne le azioni (e avremmo voluto vederne più spesso, di questi tempi, di sindaci così), ma anche di tanta gente comune. E su questo c’è la responsabilità enorme dei mass media, dai giornali locali alle tv nazionali: una mediatizzazione ossessiva e isterica che dà visibilità a qualunque protesta, anche iperminoritaria, e nessuna al resto – diventando profezia che si autorealizza, e producendo l’effetto che dice di limitarsi a registrare. E così la protesta paga più della proposta, la pancia della testa, l’emotività della razionalità, l’insulto del dialogo.
Non basta dire no
In questi casi forse non serve a nulla la razionalità. Ma va pur detto, nella fredda logica dei numeri, che paesi come Goro e Gorino, in costante spopolamento e invecchiamento, potrebbero anche trovare beneficio da un’iniezione di popolazione giovane, ancorché straniera. Ma ragionamenti come questi potrebbero essere iniziati solo in altre condizioni: è difficile, in seguito a un diktat. Di fronte al quale i discorsi pacati non servono, e l’altra grande risorsa a disposizione – la capacità di costruzione di legami, di relazioni, tra vecchi e nuovi residenti – diventa difficile, se non impossibile in una prima fase. Qui c’è tanto, tantissimo da fare, e da ricostruire, in termini di tessuto sociale. Anche se dovremmo re-imparare, dalle generazioni che ci hanno preceduto, che non tutto è prevedibile, nonostante le abitudini anche culturali in cui siamo cresciuti e ci hanno coccolati e viziati: che esiste anche l’imponderabile, l’inevitabile, l’emergenza, l’urgenza. E bisogna imparare ad affrontarli. Quello di cui molti cominciano a essere stufi è la logica del no e basta, a prescindere. Magari, come in questo caso, pronunciato anche a nome di chi non si è espresso, o si sarebbe espresso in altro modo, da agitatori venuti da fuori, anche se gli agitati erano indigeni. Si può e deve agire diversamente. A cominciare dallo Stato (e, prima, dall’Europa). Ma non si può più non fare e basta. Le ruspe, da sole, non bastano. Neanche servono a fermare gli sbarchi. In mare, affondano. Occorre altro.
Stefano Allievi è docente di sociologia all’Università di Padova, editorialista del Corrire della Sera Veneto, intervistato da Andrea Gandini