Giusto è colui che mantiene la promessa fatta al bambino
«Quando il povero crederà nel povero,
potremo cantare libertà!».
Alda Merini
«Aver ragione troppo presto,
equivale ad aver torto».
Marguerite Yourcenar
Natale nel reparto femminile
Forse nessuno, come il malato di mente, sa cogliere veramente l’essenza del Natale, della natività, l’avvento di questo Agnello che si sacrifica per l’uomo. Il loro Natale consiste, infatti, in un umile presepe, con delle figurine ritagliate e incollate sui vetri della saletta dove pranzano o passano il tempo libero. Niente più. Qualche fiocco di bambagia compie il miracolo. Il giorno di Natale le cuoche preparano il budino, una piccola fetta di torta e la direttrice lascia che gli uomini entrino nel reparto femminile, in modo che le donne possano scambiare una parola. Quel giorno qualche parente fa timidamente capolino da dietro le sbarre, con in mano un timidissimo panettone. Anche il panettone, strano, si vergogna delle malattie mentali. E mai, come in quell’occasione, le donne riescono a perdonare, di cuore, ai lori parenti per averle trascurate per lunghi, lunghissimi anni.
Responsabilità in una società dispersa
La persona mite è colei che sa perdonare e che ridesta in chi la incontra la sua parte migliore! Quando incontriamo un mite in noi viene alla luce la nostra componente più nobile; la violenza e l’ostilità, sepolte in noi stessi, si sciolgono.
A maggior ragione, ciò vale quando incontriamo Dio che è amore, l’amore che ci fa amare. Nessuno ha mai visto Dio: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede». Perché ciò divenga pienezza di dono, il Dio invisibile si è fatto però visibile nel Figlio, suo inviato nel mondo.
Viviamo, oggi, in una società fatta di relazioni liquide, una società che fa acqua da tutte le parti. È interessante, se ci lasciamo coinvolgere nella solidarietà, cioè con qualcosa che è solido. E cosa c’è di solido nella solidarietà? Con la responsabilità in solido, si tratta di un linguaggio mutuato dal vocabolario giuridico commerciale, non posso tirarmi indietro, sono vincolato. Non posso tirarmi fuori dalla società, neppure se questa è liquida e fragile. Non posso fuggire e crearmi un’isola felice: sono responsabile in solido. La solidità di una società non sta nel costruire tante isole felici, ma nello stare dentro la fragilità e costruire una cittadinanza di relazioni autentiche, fatte di attenzione all’altro.
Nella luce l’altro è il prossimo
«Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno nella parte più vicina alla realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esista. Ma sul deserto delle nostre strade, lei passa, rompendo il limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio» (Pier Paolo Pasolini).
«Dio è luce e in lui non c’è alcuna tenebra» (1 Gv 1,5): abbiamo udito, non visto, che Dio è luce. È la parola invisibile, ma udibile, che ci comunica che Dio è luce. La luce, più che esser vista, è la realtà che consente di vedere. La luce è un dono continuo posto al servizio degli altri. Essa si espande per far sì che gli oggetti, le cose, le persone, i volti divengano visibili per noi. La luce fa volgere lo sguardo su altro da sé.
Nella visione c’è bisogno di alterità. Nessuno scorge i propri occhi. Per vedere sé stessi gli occhi hanno bisogno dell’alterità dello specchio. Affermare che Dio è luce non significa che si possa vedere Dio. È luce proprio perché invisibile, ma è un invisibile che fa vedere non sé stesso, bensì gli altri. Anche l’amore, proprio come la luce, fa vedere. L’amore muta l’altro in prossimo. Quante volte fingiamo di non vedere l’altro, il quale perciò per noiàrimarrà sempre e solo «altro»?
Ai giovani serve indignarsi
I giovani, i ragazzi e i bambini spesso vengono chiamati in causa, come soggetti di cambiamento, quando fanno comodo, quando mettono pezze alle nostre speranze; ma non dovremmo piuttosto, educarli ad avere anche la dignità di indignarsi? Indignarsi è un atto di cittadinanza molto forte. Per una convivenza civile si richiede un percorso di formazione diverso. Una formazione che non si trova nella scuola e nella famiglia attuali! Resta, allora, da scoprire l’importanza dell’educazione, la quale, a differenza dell’istruzione, che si limita alla trasmissione di competenze, affina la percezione delle differenze tra bene e male, amplia lo spazio della libertà, intesa come libertà di scelta, induce alla responsabilità, come capacità di rispondere delle proprie azioni, compiute consapevolmente.
Diciamo sempre più spesso ai giovani: ora tocca a voi, indignatevi! Ai responsabili politici, economici, intellettuali ripetiamo che non devono abdicare, né lasciarsi intimidire dalla dittatura dei mercati finanziari che minaccia la pace e la democrazia.
Faccio mio l’augurio del francese Stéphane Hessel, politico, scrittore e diplomatico, il quale nel 2011 scrisse un libretto di una ventina di pagine che divenne un caso editoriale e ispirò il movimento degli Indignados. A voi tutti, giovani e anziani, bambini e adulti, a ciascuno di voi, il mio augurio è quello che abbiate un motivo per indignarvi. È fondamentale. «Quando qualcosa ci indigna diventiamo militanti, forti e impegnati» (Hessel).
Un incontro con Padre Turoldo, maestro e testimone
È vero, possiamo impegnarci solo se ci siamo indignati per qualcosa. In questo fu maestro e irriverente, insuperabile testimone, p. David Maria Turoldo, del quale abbiamo celebrato, il 22 novembre 2016, i cent’anni della sua nascita. «Padre Turoldo ha avuto da Dio due doni – come ha scritto Carlo Bo, suo grande amico -: la fede e la poesia. Dandogli la fede, gli ha imposto di cantarla tutti i giorni».
La sua esistenza, infatti, avventurosa e gloriosa, è stata segnata dalla capacità, propria dei profeti e dei geni, di stare coi piedi nella polvere del presente, ma con la testa che già intuisce limpidamente il futuro e lo precorre. Si comprendono, così, i continui incontri e scontri che segnarono la traiettoria, tutt’altro che lineare, della sua vita. Biografia, la sua, che si inserisce dentro una storia universale. È proprio per questo che si resta stupiti e ammirati di fronte al ritratto che si ricava della sua vita e della sua testimonianza.
Ci incontrammo, nel 1982, all’Eremo di Ronzano. Già da sette anni lavoravo, come prete operaio, alla Riva Calzoni di Bologna. Lui tornava da un giro nella zona del Delta del Po. A Pomposa, presso l’Abbazia, aveva incontrato alcuni sacerdoti della mia diocesi, quella di Comacchio-Ferrara. In quello stesso giorno, dovevo passare a Ronzano per chiudere un direttivo del Sindacato degli edili della Cisl. Fu così che mi trovai improvvisamente di fronte alla sua figura imponente e sanguigna, dalla quale usciva una voce da cattedrale o da deserto, vanamente temperata dall’invincibile sorriso degli occhi chiari, che continuava a ripetermi: «Sii fedele a te stesso e ai poveri, non temere perché Gesù è con te».
Mi ha stretto, con le sue mani enormi, al petto, baciandomi ripetutamente e confessandomi che era venuto a Bologna proprio per incontrarmi. Voleva conoscermi, avendo sentito alcuni parroci di Comacchio parlare tanto male di me, fino all’insulto, da convincersi di voler camminare al mio fianco con la sua testimonianza dichiarata e la sua profonda amicizia. Lui aveva scoperto nella parola biblica il suo alimento vitale. Si considerava il servo e il ministro di quella Parola, infinita come il mare.
La sua poesia al servizio della Parola
Resterò sempre un suo fedele ammiratore; per quel poco che ho potuto annotare nelle mie letture, il flusso letterario di questo cantore delle dense ore di Dio ha coperto l’intera sequenza delle Sacre Scritture. Le sue pagine sono come un intarsio di citazioni, allusioni, ammiccamenti, evocazioni bibliche. Il suo è lo spartito della Parola divina, orchestrata in parole umane.
Questo intreccio tra la Parola e le parole, tra storia divina e storia umana, fu sempre la radice del suo impegno nell’incarnazione del Cristianesimo, che si attestava spesso sulle frontiere più roventi o nei territori più disabitati da presenze religiose. I rischi di tali incursioni erano evidenti e sono a tutti noti. Lui ha tenuto sempre alta la fiaccola della speranza cristiana, convinto che Dio è con noi, «vagabondo», a camminare sulle strade, a cantare con noi i salmi del deserto.
Nei nostri giorni, così superficiali, si sente la necessità di unaàvoce come la sua, che inquietava la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’alfabeto che risuona dal roveto ardente. Affrontava il groviglio delle tensioni intraecclesiali. Attraversava le reazioni turbolente alla sua predicazione, sentiva il caloroso e impetuoso legame con la comunità dei Servi di Maria, ma anche le incomprensioni e i contrasti.
La sua figura diventò così un riferimento imprescindibile per uno stuolo di credenti, di agnostici, di politici, di intellettuali o persone comuni che accorrevano ad ascoltarlo e lo leggevano con passione. Il fascino della sua personalità nasceva dal suo oscillare tra pietà e furore, tra fedeltà e ribellione. Fu proprio per questo che rigettava, data la sua sincerità e per il suo amore autentico alla Chiesa, tre aggettivi: prete di sinistra, moderno e scomodo, tre chiodi di una crocifissione mai accettata. Affacciandosi al cratere del mistero, manifestava il suo intreccio-incontro tra Dio e il nulla. Scompaginava l’enfasi della sua voce, spettinava per l’ultima volta i suoi pensieri e i suoi versi, quelli del suo capolavoro. «Dio e il Nulla». Oggi la sua voce continua a risuonare dalle onde del mare su cui avanzano Dio e il nulla, «se pure uno dall’altro si dissocia, perché tu non puoi non essere, tu devi essere, pure se il Nulla è il tuo oceano».