Funerale di prima classe

di Monini Francesco

Questa volta Totò non ha ragione. Non è vero che «i morti sono tutti uguali», che una livella azzera le distanze tra ricchi e poveri, tra miseri e poderosi. Oppure è vero, ma solo dal punto di vista dei morti; dalla nostra parte, quella dei vivi, le differenze ci sono eccome.

Il capitalismo globale, egemone anche se morente, come ogni economia e come ogni potere, estende le sue regole e gerarchie anche sulla «città dei morti». L’informazione, che presto si fa cultura, ci insegna che ci sono morti di prima categoria, di seconda, di terza… Proprio come ad alcuni è riservato un «funerale di prima classe», mentre, da sempre, gli ultimi degli ultimi sono destinati a una fossa comune, senza nome e senza croce.

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Mentre leggete questo mio diario saremo in piena e sanguinosa battaglia referendaria. Matteo Renzi, come anticamente Charles De Gaulle, come recentemente David Cameron, ha deciso di giocarsi a poker tutta la posta: o la va o la spacca. Vuole cambiare il 30 per cento della Costituzione (ma non era la Carta più bella del mondo?) per instaurare un regime da partito unico con un uomo solo al comando. Nel prossimo autunno toccheremo anche con mano i primi effetti della celeberrima Brexit. L’Europa perderà altri pezzi oltre all’anima, già abbondantemente lasciata per strada, o troverà invece il coraggio di tornare ad Altiero Spinelli e alla Carta di Ventotene?

Dovete scusarmi, ma voglio parlare d’altro. Mentre scrivo queste note ho ancora sotto gli occhi le immagini della strage ferroviaria di Andria, quel groviglio di lamiere e mille pezzi tutto intorno: assomiglia a un disastro aereo, a un panorama del dopo bomba.

Questa mattina, è il 13 luglio del 2016, ho comprato un fascio di giornali. Ho letto le cronache, le interviste dei parenti e dei sopravvissuti, le dichiarazioni delle autorità, le polemiche politiche. Ma ho guardato soprattutto quelle foto, così simili a tante altre viste in passato. Ho pensato non solo a questa ma a tutte le stragi. Di questo, di queste, voglio parlare.

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Ma prima un pensiero ai 23 pendolari innocenti che nel sole di mezzogiorno del 12 luglio avrebbero incontrato il proprio destino. Perché il destino (cinico e baro naturalmente) in questi casi è un buon argomento per i professionisti dell’informazione. E così, giornali di carta, televisivi e on-line, ci hanno raccontato tutto, o quasi tutto, sulle «povere vittime». Il pensionato, la promessa sposa, lo studente, e per tutti una lacrima e una foto ricordo.

Poi i soliti interrogativi. Guasto, errore umano, responsabilità vicine o remote. Poi i magistrati e i vari filoni di inchiesta. Infine, ma quasi subito, la furiosa polemica politica e le dichiarazioni del ministro delle infrastrutture Delrio: «Faremo una Commissione parlamentare di inchiesta. Ma intanto il governo ha stanziato 1 miliardo e 800 milioni di euro per l’adeguamento e il miglioramento delle linee ferroviarie regionali».

Quando ho sentito il ministro in televisione – e a me sembra che Delrio sia uno dei meno peggio – mi è venuta una battuta cattiva. Ma come ministro, per 23 morti su un «binario unico», potevi almeno stanziare 2,3 miliardi, e non 1,8! Così, per pareggiare il conto. O solo per decenza. Visto che per decenni le migliaia di chilometri di ferrovie regionali e secondarie e i milioni di pendolari sono stati lasciati a sé stessi. Visto che il tuo governo ha appena stanziato 100 miliardi in tot anni, destinandoli a trafori inutili, alla grande velocità, al servizio di Italo e delle Frecce di vario colore e valore.

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Sono passate 48 ore. Oggi è il 15 luglio. Ieri in Francia era un giorno di festa, la festa della Repubblica, l’anniversario della Presa della Bastiglia. Era festa anche sulla Promenade des Anglais a Nizza. Mohamed Bouhlel, un balordo tunisino naturalizzato francese, ha lanciato il suo camion a 80 km all’ora su bambini, uomini e donne accorsi per vedere i fuochi d’artificio. Dopo due chilometri e dieci minuti di terrore, il pazzo e aspirante suicida (o era un terrorista? un estremista jihadista? un militante dell’Isis? aveva dei complici?) è stato ucciso. Dietro di lui una scia di 84 corpi maciullati e centinaia di feriti.

Guardo le immagini. Le urla, il terrore, la fuga verso un qualche riparo. E i racconti dei sopravvissuti, le lacrime, i mille fiori posati sul lungomare di Nizza.

La stessa sera, un’ultim’ora al telegiornale. Colpo di stato dei militari in Turchia: i morti si contano a centinaia. Il capo dei golpisti annuncia di aver preso possesso di tutti i punti nevralgici.

La mattina del 16 i giornali titolano ancora sulla fuga di Recep Tayyip Erdogan. Ma non è vero. A notte fonda, a solo 4 ore dall’inizio del golpe, Erdogan appare in videochiamata da uno smartphone, invita in piazza i suoi sostenitori, torna a Istanbul. Il sultano ha vinto ed è più saldo che mai. Fa arrestare migliaia di militari e di poliziotti, destituisce migliaia di giudici infedeli, compresi quelli della Corte Suprema. Agita lo spettro del ritorno alla pena di morte. Inizia la grande vendetta. «Lager» è il bellissimo titolo in prima pagina del Manifesto. Il bilancio provvisorio: 10.000 arresti e 50.000 sospesi o licenziati. La democrazia si allontana definitivamente dalla Turchia.

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Ma voglio tornare al punto di partenza. Alle stragi che non sono tutte uguali. E voglio farlo in modo quasi scientifico, scegliendo un punto di osservazione «tassonomico». La tassonomia è una scienza, è la disciplina che si occupa di classificazione, di indagare le regole e i criteri che sovrintendono all’ordinamento e alla gerarchia di un insieme di organismi o di fenomeni. Mi spiego: ci sono «stragi di prima classe» e stragi di pochissimo conto, stragi che rimangono scolpite nella memoria collettiva e stragi che accadono e spariscono nello spazio di pochi minuti. Due righe di agenzia e si passa alla notizia successiva.

Da che dipende allora la classifica? A rigore, a stabilirlo dovrebbe essere una specie di «giuria popolare», il sentire delle persone, la coscienza collettiva.

In realtà non è così semplice. La coscienza collettiva – ciò che tutti insieme sentiamo, pensiamo, raccontiamo a noi stessi e a chi ci è prossimo – non nasce come un fiore spontaneo.

Tre grandi fattori influenzano, e molte volte dirigono, la nostra percezione e comprensione dei fatti. L’economia (la grande economia dove tutti siamo immersi, ma anche i conti della nostra economia domestica e familiare); la politica (che amplifica,ào minimizza, o distorce gli avvenimenti per combattere i partiti avversari); infine l’informazione (perché ogni avvenimento, lontano o vicino, arriva a noi attraverso un complesso sistema informativo a cui partecipiamo solitamente come semplici spettatori).

Ci sarebbe anche un quarto fattore, la memoria, la nostra capacità cioè di confrontare quanto accade qui e ora, sotto i nostri occhi, con fatti e avvenimenti simili successi in passato. È un esercizio difficile – oggi sempre più difficile visto lo strapotere dei tre fattori sopra esposti – ma è forse l’unico che può aiutarci a capire.

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Per esempio. Il disastro ferroviario di Andria a me fa pensare al disastro di Marcinelle. Il prossimo 8 agosto saranno passati 60 anni. In Belgio, nella miniera di carbone di Bois du Cazier di Marcinelle, una scintilla elettrica provoca un incendio che riempie di fumo tutte le gallerie sotterranee. Come topi muoiono 264 minatori dei 274 in quel momento al lavoro. In gran parte sono emigranti italiani.

Il carbone – a parte in Cina: è di pochi anni fa un tremendo disastro minerario – non tira più. L’impianto trappola di Bois du Cazier è stato chiuso da tempo. Leggo che è diventato un sito patrimonio dell’UNESCO. Magra consolazione.

Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso. La diga è un manufatto perfetto, un’altissima muraglia di cemento armato.

Proprio sopra il grande bacino idroelettrico c’è il monte Toc. Il 9 ottobre del 1963 un bel pezzo del monte, 260 milioni di metri cubi di roccia, frana nel lago. Alle 22.39 una immensa onda scavalca la diga (la diga è rimasta intatta, è ancora lì, uno spettro per chi voglia andare a vedere) e si abbatte su campi, case e persone. Il bilancio è di 1.910 morti. Innocenti naturalmente.

Ma che significa innocenti? È il titolo a tutta pagina che i giornali poltroni riciclano dopo ogni disastro: «La strage degli innocenti». Ma che vuol dire?àTutti i morti sono innocenti. Non serve. Non basta. Una tragedia annunciata chiede, pretende giustizia. Grazie a una oscura e coraggiosa cronista de l’Unità (si chiamava Tina Merlin, il suo nome va ricordato, a testimonianza che qualche vero giornalista continua a esserci) si conosceranno anche i colpevoli della carneficina del Vajont, sordi ai tanti avvertimenti di ingegneri e geologi sulla scelta folle di riempire quell’invaso, e fino all’orlo, quando la montagna minacciava di «venir giù» da un momento all’altro.

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Andria, Marcinelle, Vajont. Un treno di pendolari, una miniera di carbone, una grande diga. Sembrano lontanissime l’una dall’altra, ma da un punto di vista tassonomico appartengono alla stessa famiglia. Esattamente come il topolino e l’elefante fanno entrambi parte dell’ordine dei mammiferi, come nella vasta famiglia delle leguminose trovate i fagioli, i piselli e il trifoglio ma anche la grande acacia e il solitario carrubo.

Sono insomma della stessa specie, sono fatte della stessa pasta. E nella mia personale classifica delle stragi, Andria, Marcinelle, Vajont meritano il primo posto. Tutte e tre – assieme a innumerevoli altre, pensate solo ai morti d’amianto – sono stragi annunciate.

Non c’entra la natura matrigna. Non c’entra il destino cinico e baro. Non c’entrano l’errore umano, il guasto meccanico, neppure il terrorismo. C’entra solo una cosa: i soldi. La ricerca del massimo profitto nella assoluta indifferenza per il «fattore umano», che tradotto sarebbero poi le persone: uomini, donne e bambini.

Davanti a una strage annunciata, a un disastro che poteva essereàevitato ma che non è stato evitato perché «chi se ne frega» degli operai, dei pendolari, degli abitanti di un quartiere o di una città, la mia reazione non è lo stupore, non è lo sconcerto, non è il dolore. È il furore. Furore anche contro chi, dopo essersene fregato, oggi si indigna. Chi ci governa, l’avete notato?, è bravissimo a indignarsi. Si indigna in quattro e quattr’otto, anche due o tre volte al giorno.

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Economia, politica e informazione dettano le regole per classificare le stragi.

Prima di tutto la nazionalità. Una strage italiana conta molto di più di una strage in terra straniera. La quale strage guadagna comunque dei punti – molto cordoglio e molto spazio su giornali e tv – se ci sono morti italiani. Un morto italiano vale, faccio un calcolo a spanna, quanto 4 morti francesi o spagnoli, come 6 morti americani (statunitensi) e come 15 morti sudamericani. Per «fare un morto» italiano (anche se non è nostro parente o conoscente, anche se impariamo per la prima volta il suo nome) ci vogliono perlomeno 20 morti in Turchia, nell’Europa dell’Est o in Russia, e 50 morti (sempre «innocenti» si intende) in India, Cina e Giappone. La quotazione degli africani è ancora più bassa. Non bastano 100 vittime, anche se annegate nel Canale di Sicilia, per pesare sulla bilancia informativa quanto un morto italiano purosangue.

Nell’era del capitale mondializzato, dove le merci circolano ovunque e liberamente, nel tempo del capitalismo finanziario dove i soldi viaggiano alla velocità della luce con un semplice clic di computer, in un sistema informativo dominato dalla rete che ci rende contemporanei e onnipresenti a tutto quanto accade in ogni angolo del pianeta; in questa Terra divenuta così piccola e interdipendente, le vittime continuano a essere contabilizzate secondo le distanze e le bandiere.

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Molto quotati, sul mercato dell’informazione, sono naturalmenteàgli attentati terroristici. Una strage provocata da un errore umano o dall’azione di un pazzo, insomma, una «strage comune» vale molto meno (la notizia si spegne in fretta, «non buca»), rispetto a una strage messa a segno da un gruppo terroristico.

Ma c’è gruppo e gruppo. Un conto è il gruppo locale, un conto una cellula jihadista. Se poi c’entra il Califfato, se si presumono coinvolti militanti o simpatizzanti dell’ISIS, la strage sale subito di grado. Giornali e tv possono sguazzarci dentro per diverse settimane.

Infine – e come dimenticarlo? – c’è il lato umano. Le lacrime, La commozione a buon mercato. E da questo punto di vista, che c’è di meglio dei bambini? Le piccole bare bianche sono sempre telegeniche. Una strage con bambini, almeno uno, ma meglio se sono in tanti, è sicuramente una strage di prima categoria.

Su quanto valga la vita di un uomo, ognuno può avere la sua opinione. Il «mistero contemporaneo» è invece perché debba esserci differenza tra un morto bambino e una vittima adulta, tra un italiano e un senegalese, un cristiano e un musulmano, un bianco e un nero, una suora e una donna comune, una donna e basta.

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Oggi è il 19 luglio e devo chiudere questo diario. Carlo De Benedetti – passa per essere un imprenditore illuminato, editore di un grande giornale che passa per essere un quotidiano progressista – è stato condannato in primo grado, assieme a suo fratello e ad altri dirigenti della defunta Olivetti, alla pena di 5 anni e 2 mesi per aver consapevolmente ammazzato di eternit, cioè di amianto, otto operai.

Scommetto che in secondo grado e in cassazione ci caverà le penne. Ma mi piace sperare di no. Furore e giustizia. Ma subito, non dieci o vent’anni dopo. Per le stragi annunciate, almeno per come la penso io, pietà l’è morta.