La parola che rompe l’incantesimo
«È tutta una questione di soldi, ragazzo, il resto è conversazione», dice Gordon Gekko, alias Michael Douglas, il protagonista del capolavoro di Oliver Stone, Wall Street, nel momento culminante del film, rispondendo a Bud Fox, il giovane e ambizioso allievo che lo accusa di voler smembrare e vendere la Blue Star, la compagnia aerea in cui lavorava il padre («se quella gente perderà il lavoro non saprà dove andare… mio padre ha lavorato là dentro per 24 anni… ho dato la mia parola»). E in una battuta disvela l’essenza stessa del mondo che stava proprio allora – era il 1987 – trasformandosi sul modello totalizzante dell’ideologia neoliberista. Quello in cui le persone, i corpi, le storie e il lavoro non contano nulla (sono, appunto, «conversazione») di fronte all’unica potenza riconoscibile e riconosciuta: il denaro. I soldi.
«I do money with money» («faccio i soldi con i soldi») spiega Gekko con paziente, autoritaria pedagogia, anticipando quanto un bel po’ di anni dopo rigorosi studiosi individueranno come il tratto più distruttivamente innovativo di quello che Luciano Gallino ha definito il Finanzcapitalismo: la forma devastante che il capitalismo ha assunto oggi, in cui non il lavoro ma il denaro è assunto come alfa e omega del processo di valorizzazione.
E la ricchezza pretende di autogenerarsi, relegando nell’irrilevanza e nell’oscurità l’articolato insieme dell’attività produttiva: «Io non creo niente: io posseggo», è ancora Gekko a parlare. E aggiunge: «Noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto». Come a dire che l’unica «soggettività» cui è riconosciuta cittadinanza in questo mondo del «mercato totale» è quella che sta in alto, sulla cuspide della piramide. È lei – sono loro, i nuovi «signori della terra» – la potenza che fa il racconto, l’unico ascoltato, lo storytelling da cui ognuno finisce per essere raccontato…
Si spiega così il silenzio di tomba in cui è precipitato il lavoro quasi di colpo, dopo un secolo in cui la sua voce potente era risuonata in tutti i livelli della società, dal pianoterra delle lunghe catene di montaggio e degli infiniti muri di cinta degli sterminati stabilimenti, su su, fino ai consigli di amministrazione e alle pagine delle Costituzioni, in quello che a ragione è stato definito il «secolo del lavoro», passando per le strade e le piazze in cui i cortei in tuta blu hanno sfilato, punteggiati dal rosso delle bandiere.
Il lavoro continua a «possedere» il tempo e la vita (il «tempo di vita») delle persone, addirittura in misura più ampia e pervasiva di prima. Sul lavoro si continua a sudare e sputare l’anima, se ancora la si possiede e non è stata assorbita dalla mission aziendale. Ma senza più parole. Senza voce. Perché l’unica voce dotata di un proprio corso (come le monete) è quella che proviene dall’alto, veicolata da un sistema mediatico che ha fagocitato la realtà (l’intero universo del reale), piegandolo alle proprie vibrazioni comunicative. E senza «mezzi» (senza medium), organizzativi o politici perché nell’universo astratto del denaro (dell’«equivalente generale» si sarebbe detto al tempo in cui l’economia era «economia politica») la buona, vecchia, organizzazione è derubricata a residuo burocratico, e il concetto stesso di «rappresentanza» è superato dentro quello, ben più smart, e «mercatista» di rappresentazione. «Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy?» – dice ancora Gekko – «È il libero mercato, e tu ne fai parte: sì, hai quell’istinto del killer…».
Le conseguenze di questo integrale mutamento di «regime sociale» sono scritte – e plasticamente visibili – nei numeri: numerose ricerche, realizzate con differenti metodologie e per conto di committenze eterogenee sono comunque convergenti nel segnalare un massiccio spostamento di potere d’acquisto e di reddito tra il lavoro e il capitale, consumatosi a partire dalla fine degli anni ’80, in corrispondenza della massiccia ondata di finanziarizzazione che ha accompagnato il processo di globalizzazione. Si ritiene che una massa oscillante tra gli 8 e i 10 punti di Pil globale si sia spostata, nel corso di un quarto di secolo, dal monte-salari al monte-profitti, cioè dalle buste paga dei lavoratori ai bilanci delle imprese. Una cifra immensa (più di 5000 miliardi di dollari) che ogni anno, in seguito al mutato rapporto di forza tra Capitale e Lavoro, non affluisce più a sostenere i consumi delle famiglie ma le disponibilità degli imprenditori, i quali sempre più spregiudicatamente tendono a utilizzarla in quella Las Vegas virtuale e globale che è il circuito finanziario anziché per investimenti produttivi e occupazione.
Come si può rompere la «trappola di Gekko»? Con gli strumenti con cui in genere, nei racconti gotici o di heroic fantasy, si spezzano gli incantesimi: con la parola. Riprendendosi, da parte del lavoro e delle sue sempre più articolate figure, il potere di «fare racconto di sé». Contrapponendo al racconto impudico e nella sua essenza paranoico che si fa in alto, la narrazione «dal basso» e «dal margine», dove la vita vissuta, sia pur non vista, tuttavia «vede». Possiede visione di sé e visionarietà di futuro (cioè la capacità di guardare
all’«oltre» rispetto a un presente che, nella sua immobilità, rischia di pietrificare la vita). La lotta per il lavoro, oggi, è così, ancora una volta, struggle for life. Lotta per vivere.
Marco Revelli
docente di Scienza della politica e Sistemi politici
comparati all’Università del Piemonte orientale.
Autore di numerosi saggi di Politica e storia sociale.
Da pochi mesi è uscito, per Einaudi, Non ti
riconosco. Viaggio eretico nell’Italia che cambia.